Lavoratori e lavoratrici dei supermercati licenziati in tronco, o pesantemente sanzionati, in tutta Italia, con la tecnica del finto cliente.


Il capitalismo si fonda sul furto sistematizzato

English translation above.

I recenti licenziamenti e sanzionamenti avvenuti nei supermercati tramite la famigerata “tecnica del finto cliente” rappresentano l’ennesima dimostrazione di come il capitale riesca a trasformare la disciplina aziendale in un’arma di repressione. Nello specifico: un test artificiale, costruito per mettere sotto pressione il lavoratore, diventa un pretesto per tagliare teste e fare pulizia nel personale, anche tra quelli con vari decenni di servizio.

Ma il punto vero non è il “come”: è il chi. Perché l’indignazione dei padroni, la loro posa moralizzatrice, il loro finto scandalo per un presunto errore o una disattenzione alla cassa, suona quanto di più ipocrita si possa immaginare. Da che pulpito?

DA PARTE DI COLORO, QUESTI PARASSITI, CHE OGNI GIORNO, STRUTTURALMENTE, SI APPROPRIANO DEL PLUSVALORE GENERATO SFRUTTANDO LAVORO ALTRUI!

Sebbene nel commercio non venga direttamente generato plusvalore, anche qui vale la legge aurea del capitale: il lavoratore produce – o permette di realizzare – più valore di quanto non gli venga restituito in salario. La differenza è, come ben sappiamo, qua tificata nel profitto intascato dal padrone, un furto legalizzato, sistemico, normalizzato. Ed è questo esproprio quotidiano, non il “mancato controllo di un prodotto nel carrello”, a mantenere e alimentare la ricchezza delle imprese.

Eppure, con l’ipocrisia che da sempre li caratterizza, proprio chi vive dell’appropriazione del lavoro altrui (lavoro) non pagato, chi sfrutta l’opera altrui, trova il coraggio di imputare al lavoratore la sua “mancanza di attenzione”, il suo “errore”, il suo “comportamento non conforme”.

L’imprenditore – che dovrebbe essere l’ultimo a parlare, visto che la sua intera posizione sociale si regge sullo sfruttamento, sull’estrazione di valore dal tempo degli altri – pretende invece di ergersi a giudice morale. Mentre accusa, continua a guadagnare sul lavoro di chi sta licenziando. Mentre condanna, continua a sottrarre la parte di valore che non viene restituita in busta paga.

Il licenziamento, allora, non è una “sanzione”: è un atto di prepotenza bella e buona. Un modo per ricordare chi è che comanda, chi decide, chi dispone della vita degli altri, chi è PADRONE!

Eppure la vera domanda è: chi dovrebbe essere davvero giudicato?

Il lavoratore, che vive del proprio salario, o il padrone, che vive da parassita del lavoro altrui?

Il cassiere che sbaglia un controllo, o chi ogni giorno sottrae sistematicamente valore prodotto da chi lavora?

Chi produce e permette la circolazione delle merci o chi si appropria?

È necessario ordunque ribaltare la prospettiva:

SE C’È QUALCUNO CHE VIVREBBE MALE UNA VERIFICA TRASPARENTE DEL PROPRIO OPERATO, NON È IL LAVORATORE, MA IL PADRONE!

Il capitale giudica, ammonisce e punisce.

Ma se si giudicasse con lo stesso metro l’appropriazione quotidiana del plusvalore, allora sì che ci sarebbe davvero da licenziare in tronco – non le persone, ma l’intiero sistema capitalistico che permette ai pochi di arricchirsi sulla fatica di molti.

Perché il vero scandalo non è un prodotto nascosto in un carrello.

IL VERO SCANDALO È IL MODELLO ECONOMICO IN AUGE IN CUI CHI LAVORA È LICENZIABILE, MA CHI SFRUTTA È UN SANTO, UN APOSTOLO E IN QUANTO TALE INTOCCABILE!

IL SISTEMA PER CUI IL FURTO SISTEMATICO DI TERRE E BENI ALTRUI, ATTRAVERSO LA GUERRA, E LA REGOLA CHE NON L’ECCEZIONE.

È ORA DI INIZIARE A REAGIRE: QUI E ORA!

Supermarket workers across Italy fired on the spot, or heavily sanctioned, through the “fake customer” technique.

Capitalism is built on systematized theft

The recent dismissals and sanctions carried out in supermarkets using the notorious “fake customer” technique represent yet another demonstration of how capital manages to transform workplace discipline into a weapon of repression. Specifically: an artificial test, constructed to put the worker under pressure, becomes a pretext for cutting heads and cleaning out staff, even among those with decades of service.

But the real point is not the how: it is the who. Because the indignation of the bosses, their moralizing posture, their fake outrage over an alleged mistake or moment of inattention at the checkout, sounds as hypocritical as one can possibly imagine. From what pulpit do they preach?

FROM THOSE—THESE PARASITES—WHO EVERY DAY, STRUCTURALLY, APPROPRIATE THE SURPLUS VALUE GENERATED BY EXPLOITING OTHER PEOPLE’S LABOR!

Although surplus value is not directly produced in commercial activity, the golden law of capital still applies: the worker produces—or enables the realization of—more value than what is returned in wages. The difference is, as we well know, quantified in the profit pocketed by the employer: a legalized, systemic, normalized form of theft. And it is this daily expropriation, not a “missed check on a product in the shopping cart,” that maintains and fuels corporate wealth.

And yet, with the hypocrisy that has always characterized them, it is precisely those who live off the appropriation of unpaid labor, who exploit the work of others, that find the nerve to blame the worker for their “lack of attention,” their “error,” their “non-compliant behavior.”

The entrepreneur—who should be the last person to speak, given that their entire social position rests on exploitation, on the extraction of value from other people’s time—nonetheless claims the right to stand as a moral judge. While accusing, they continue to profit from the labor of the very people they are firing. While condemning, they continue to withhold the portion of value that is never returned in a paycheck.

Dismissal, then, is not a “sanction”: it is pure, unadulterated bullying. A way to remind everyone who commands, who decides, who controls the lives of others—who is the BOSS.

And yet the real question is: who should truly be judged?

The worker, who lives off their wage, or the boss, who lives as a parasite off the labor of others?

The cashier who misses a check, or the one who every day systematically siphons off the value produced by those who work?

Those who produce and enable the circulation of goods, or those who appropriate them?

It is therefore necessary to reverse the perspective:

IF THERE IS SOMEONE WHO WOULD HANDLE VERY BADLY A TRANSPARENT EVALUATION OF THEIR CONDUCT, IT IS NOT THE WORKER—IT IS THE BOSS!

Capital judges, warns, and punishes.

But if the daily appropriation of surplus value were judged by the same standards, then yes, there really would be good reason for summary dismissal—not of individuals, but of the entire capitalist system that allows the few to enrich themselves off the labor of the many.

Because the real scandal is not a product hidden in a cart.

THE REAL SCANDAL IS THE CONTEMPORARY ECONOMIC MODEL IN WHICH THOSE WHO WORK ARE DISPOSABLE, WHILE THOSE WHO EXPLOIT ARE SAINTS, APOSTLES, AND THEREFORE UNTOUCHABLE!

THE SYSTEM IN WHICH THE SYSTEMATIC THEFT OF LANDS AND GOODS—THROUGH WAR—IS THE RULE, NOT THE EXCEPTION.

THE TIME TO REACT IS NOW: HERE AND NOW!


2 risposte a “Lavoratori e lavoratrici dei supermercati licenziati in tronco, o pesantemente sanzionati, in tutta Italia, con la tecnica del finto cliente.”

  1. caro interlab,

    capisco la fondatezza delle forzature dottrinali, come tu stesso riconosci attribuite al commercio la generazione di plus valore non è una lettura ortodossa, ma non credo sia questo il punto centrale per chi nel lavoro vede il mezzo obbligatorio per continuare a campare se stesso e magari i suoi affetti più vicini.

    Non c’è una riga sulla faziosità delle procedure (piccoli oggetti nascosti tra pacchi di castagne o cartoni di birre) né un accenno a come difendersi o sul come avvengono questi controlli in altri paesi (ovvero in altre cornici legislative). Credo serva più pragmatismo per agganciare al corretto ragionare la classe.

    un abbraccio R.M.

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  2. Caro R.M.,
    grazie per il commento, che ci permette di precisare meglio il taglio del testo.

    Il punto centrale dell’articolo non era offrire un vademecum sindacale su come difendersi dalle procedure del “finto cliente”, né un confronto tecnico tra diverse normative internazionali. Non per mancanza di interesse verso questi aspetti – che sono importanti e legittimi – ma perché il nostro obiettivo era un altro: mettere a fuoco la sostanza del rapporto sociale che queste pratiche rivelano.

    La questione non è se il commercio produca direttamente plusvalore o meno. Nella versione pubblicata, infatti, abbiamo chiarito che la circolazione non lo genera. Il punto politico – e ciò che volevamo far emergere – è che il lavoratore del commercio è comunque sottoposto alle stesse ferree logiche di dominio del capitale, come mostra in modo evidente anche la vicenda PAM.

    La procedura del “finto cliente” non è un dettaglio tecnico: è l’espressione plastica di un rapporto asimmetrico, in cui il padrone può tutto e il lavoratore nulla. Che si tratti di ristrutturazione del personale o di intimidazione diffusa, il messaggio è lo stesso: il potere di giudicare, punire e definire il valore del lavoro è unilaterale.

    Capire questa dinamica non significa sottovalutare i problemi immediati dei lavoratori; al contrario, significa rifiutare una lettura ridotta alla sola dimensione corporativa o procedurale. Il nostro intento non era entrare nel “questa cosa si può fare / questa non si può fare” previsto dal quadro sindacale, ma parlare del nocciolo politico, dei diversi e inconciliabili interessi tra chi lavora e chi sfrutta.

    È da questa prospettiva che abbiamo scritto il testo: non con un approccio sindacale, ma con un’impostazione che evidenzia la natura profonda del rapporto tra capitale e lavoro.

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