Come si pone la questione di classe in Israele-Palestina?


Un dossier per alimentare il dibattito.

Come sono caratterizzate le classi e quali sono i loro rapporti in Israele e Palestina? Nei nostri interventi alle differenti manifestazioni contro questa nuova guerra abbiamo constatato come non venisse minimamente considerato questo aspetto invece centrale del conflitto israelo-palestinese. Abbiamo allora raccolto stralci di articoli, contributi e informazioni da varie fonti web per avere una visione il più aggiornata possibile sull’argomento. Ne è seguita la rielaborazione di tutto questo materiale attraverso un’intensa opera di copia-incolla-commento per la quale le fonti citate possono essere considerate solo indicative dei brani messi tra virgolette. Speriamo con questo lavoro di aver fatto cosa utile al dibattito e che il testo possa essere usato e avere seguito anche in aree esterne alla nostra. In conclusione vi sono alcune considerazioni politiche del Laboratorio e una cronologia di riferimento. 

Tutti i dati si riferiscono alla situazione prima dell 7 ottobre 2023.

Israele

Un passo indietro: Israele all’inizio degli anni ‘70, differenze etniche e contraddizioni di classe.

“La prima caratteristica fondamentale della società israeliana è che la maggioranza della popolazione è costituita da immigrati o da figli di immigrati. Nel 1968, la popolazione ebraica adulta (cioè di età superiore ai 15 anni) di Israele contava 1.689.286 persone, di cui solo il 24% era nato in Israele e solo il 4% da genitori nati in Israele. La maggior parte degli immigrati proviene dalla piccola borghesia, sia che siano arrivati da aree urbane dell’Europa centrale e orientale, sia che provengano da città del mondo arabo. Il nuovo immigrato non vede l’ora di cambiare il proprio posto nella società. Inoltre, vede che tutte le posizioni vantaggiose nella nuova società sono occupate da immigrati precedenti e questo accresce la sua ambizione di salire la scala sociale attraverso un lungo e duro lavoro. La maggior parte delle persone in Israele considera la propria posizione sociale in termini di origini etniche e geografiche, e tale coscienza sociale è ovviamente una barriera che impedisce alla classe operaia di svolgere un ruolo indipendente. Un lavoratore israeliano userà categorie etniche e considererà sé stesso e gli altri in termini non di “classe” ma di “polacco”, “orientale” e così via.

Tuttavia, la società israeliana non è semplicemente una società di immigrati, ma altresì di coloni. Questa società, compresa la sua classe operaia, è stata plasmata attraverso un processo di colonizzazione. Questo processo non si è svolto nel vuoto, ma in un Paese popolato da un altro popolo. Il conflitto permanente tra la società dei coloni e gli arabi palestinesi indigeni e sfollati non è mai cessato ed ha plasmato la struttura stessa della sociologia, della politica e dell’economia israeliana.

La maggior parte degli strati più sfruttati della classe operaia israeliana sono immigrati dall’Asia e dall’Africa.

Molti degli immigrati dall’Asia e dall’Africa (Mizrahim, orientali) hanno migliorato il loro tenore di vita diventando proletari in una moderna società capitalistica. Il loro malcontento non era diretto contro la loro condizione di proletari, ma contro la loro condizione di “orientali”, cioè contro il fatto che erano guardati dall’alto in basso, e a volte persino discriminati, da coloro che erano di origine europea (Askenaziti). I governanti sionisti hanno adottato misure per cercare di fondere i due gruppi. Ma, nonostante ciò, le differenze rimanevano evidenti e di fatto aumentavano. A metà degli anni Sessanta, due terzi di coloro che svolgevano lavori non qualificati erano orientali; il 38% degli orientali viveva in tre o più persone per stanza, mentre solo il 7% degli europei lo faceva.

Con l’espansione dell’economia, si è creata una grande richiesta di lavoratori qualificati. È più conveniente importare lavoratori qualificati che crearli in patria. Inoltre, a parte il valore intrinseco dell’immigrazione ebraica in Israele dal punto di vista sionista, un massiccio movimento verso l’alto di ebrei orientali potrebbe creare allo stesso tempo un problema per il sionismo. Non c’è dubbio, quindi, che finché la società israeliana rimarrà capitalista e puramente ebraica, le divisioni etniche corrisponderanno in larga misura alle divisioni di classe.

Tuttavia, tali divisioni e differenze sociali sono interpretate dagli orientali in termini etnici; essi non dicono: “sono sfruttato e discriminato perché sono un lavoratore”, ma “sono sfruttato e discriminato perché sono un orientale”.

La stragrande maggioranza degli immigrati prima del 1948 era di origine europea; tra il 1948 e il 1951 le proporzioni erano circa uguali; da allora la maggior parte degli immigrati proviene da paesi extraeuropei. Nel 1966, solo la metà della popolazione israeliana era di origine europea” [The Other Israel: The Radical Case Against Zionism, a cura di Arie Bober, Garden City, New York: Anchor Books, 1972, https://coalizioneoperaia.com/2023/11/06/moshe-machover-e-akiva-orr-il-carattere-di-classe-di-israele/#_ftnref3]

Israele oggi, ancora differenze etniche e contraddizioni di classe

“Oggi, gli ebrei del Medio Oriente costituiscono la maggioranza della popolazione ebraica di Israele. 

Della popolazione di Israele, il 25-30% sono ebrei ashkenaziti e altri; il 15% sono immigrati russi giunti negli ultimi 20 anni; il 35-40% sono Mizrahim;  20% sono israeliani arabo/palestinesi; 2,2% sono etiopi. Ciò significa che il 55-60% della popolazione israeliana è ‘non bianca’. Mizrahim e israeliani arabi costituiscono la maggioranza. La conoscenza di queste demografie ha il potenziale per cambiare la percezione e il trattamento di queste comunità marginalizzate.

Nonostante siano la maggioranza della popolazione ebraica in Israele, i Mizrahim sono rappresentati in numero limitato nel Parlamento israeliano e in posizioni di élite come le cattedre universitarie. Molti vivono ancora in città povere in sviluppo, Moshavim agricoli o periferie urbane come il sud di Tel Aviv che ricevono meno fondi municipali rispetto alle città, ai paesi e ai kibbutz ebraici ashkenaziti più centrali.

I Mizrahim sono stati discriminati in vari modi, inclusi istruzione, alloggi e accesso a posizioni di potere fin dai primi giorni dello Stato.”[https://www.jewishvoiceforpeace.org/wp-content/uploads/2015/07/JVP-Jews-of-the-middle-east-fact-sheet.pdf]

“Lo stato di Israele è attraversato da profonde ineguaglianze sociali. Nel 2003 Netanyahu condusse una politica fortemente liberale tagliando i sussidi al welfare, conducendo importanti privatizzazioni nei settori statalizzati, riducendo le tasse per i redditi più elevati, tagliando i servizi pubblici e imponendo una serie di leggi contro la conflittualità operaia nei luoghi di lavoro. 

Le crisi del 2008 e del 2020 peggiorarono significativamente la condizione economica del paese. Le fattorie collettive dette Kibbutzim sono ormai state per lo più trasformate in strutture residenziali di fascia alta. I valori dei terreni sono saliti alle stelle grazie alla speculazione immobiliare mentre i tagli dei fondi per la sanità e gli altri servizi pubblici hanno portato a una importante crescita dei costi per la salute, limitando ulteriormente le possibilità di accesso ai servizi per le fasce più povere della popolazione. 

Tra i paesi di area OCSE Israele, con gli USA, è quello con il divario maggiore tra i redditi più bassi e quelli più alti mentre, nella stessa area, il tasso di povertà infantile è secondo solo a quello del Messico: un bambino israeliano su tre vive in povertà e ben una famiglia su cinque vive al di sotto della soglia di povertà.

Il 50% più povero della popolazione si aggiudica un 13% del prodotto nazionale totale, mentre il primo 10% si appropria del 49% della ricchezza nazionale. Il tasso di concentrazione del capitale è elevatissimo: una ventina di famiglie controllano collettivamente un quinto delle entrate generate dalle principali società israeliane, queste prime 500 aziende rappresentano il 40% del settore imprenditoriale e il 59% delle entrate nazionali” [https://thenextrecession.wordpress.com/2023/10/18/israel-the-shattering-of-a-dream].

“Le fasce più povere della popolazione israeliana sono costituite dagli ebrei ortodossi (circa il 10% della popolazione) e dagli arabi (il 20%). Tra le famiglie di origine araba il tasso di povertà è triplo rispetto a quello delle famiglie ebraiche.

A questa situazione si aggiunge una scarsa spesa in programmi sociali a cui è dedicato solo il 14% del PIL contro la media del 22% di area OCSE. Per quanto riguarda le famiglie borghesi queste godono di imposte dirette molto basse” [https://eticaeconomia.it/la-disuguaglianza-dei-redditi-in-israele-unevoluzione-peculiare].

Israele ha quasi 10mln di abitanti, 75% ebrei (in ordine di numerosità Mizharim, Ashkenaziti, Ortodossi, Russi…), 20% arabi, 5% di altri gruppi. Inoltre nel corso dell’ultimo decennio, si sono stabiliti nel paese numeri considerevoli di lavoratori migranti non ebrei da Romania, Thailandia, Cina, Filippine, Africa e America meridionale. Questi ultimi non hanno la possibilità di prendere la residenza e sono ultra ricattabili in quanto possono essere espulsi in qualsiasi momento. La classe operaia è per lo più impiegata nella manifattura, nei servizi, nel tessile, nella produzione di petrolio, cibo.

Il tasso di povertà della popolazione israeliana nel 2019 era di circa il 20% (il dato è fondamentalmente sovrapponibile a quello della popolazione araba israeliana) a fronte di una disoccupazione del solo 4%, questo significa una condizione molto diffusa di lavoro povero.

Gli arabi, non ebrei, godono di peggiori istruzione pubblica e infrastrutture, sono discriminati nel mercato del lavoro, non hanno accesso alle terre e sono costretti a vivere in piccole enclavi. Costituiscono perciò un importante esercito industriale di riserva a basso costo. Gli strati inferiori della popolazione vanno dagli ebrei mizrahim (“orientali”, ceto medio, molti dei quali coloni e quindi storicamente orientati verso il Likud e i partiti identitari di destra in opposizione al centro-sinistra askenazita) e ortodossi (haredi costiuiti per poco piu della metà dagli uomini che non lavorano, non fanno il servizio militare e pregano per buona parte della giornata, mentre le donne haredi lavorano. Nel decennio fra il 2002 e il 2011 il tasso di occupazione fra le haredi era del 50 per cento: nel 2013 era cresciuto al 68 per cento. Queste donne lavorano non solo come insegnanti, ma sono ormai presenti in tutte le facoltà universitarie e in molte professioni terapeutiche, nei servizi sociali, uffici di risorse umane, psicologia clinica, grafica e design, contabilità, raccolta fondi e campagne di sensibilizzazione, aumenta la loro presenza anche nei settori dei media, dell’hi-tech e dell’informatica.  [https://www.terrasanta.net/2023/05/israele-meno-donne-in-parlamento-ma-piu-lavoratrici-tra-le-ultraortodosse] Una parte degli ortodossi crede che Israele non abbia diritto ad avere un proprio territorio prima dell’avvento del nuovo messia, quindi dall’inizio della guerra si sono schierati in solidarietà con le popolazioni palestinesi), poi c’è il 20% di arabi, il 10% di altri immigrati con o senza cittadinanzaa e infine i lavoratori transfrontalieri palestinesi, la parte più povera della società. Le classi più povere, arabi e ultraortodossi, votano per i rispettivi partiti, arabi i primi e religiosi i secondi. Le periferie e il sud di Tel Aviv sono occupati da questi strati sociali e godono di peggiori servizi sanitari, scolastici e trasporti. Per loro l’aspettativa di vita è più bassa.

Parlando di periferie ci torna in mente l’intervento di Atanasio che porta Fanon nelle banlieue francesi: “Il razzismo è una conseguenza dello sfruttamento economico, non una causa. Ossia: io non sono sfruttato di più perché sono nero, ma sono nero perché sono il più sfruttato. Di fatto la condizione di appartenenza alla classe operaia rende neri anche i bianchi. Il problema del colore esiste esclusivamente in quanto questione subordinata a quella dell’appartenenza di classe.” [https://interlab.blog/2023/07/09/la-rivolta-delle-banlieues-unintervista-ad-atanasio-bugliari-goggia]

Al centro-nord di Tel Aviv vive invece la potente élite ebraica ashkenazita, di origine europea.

La produzione bellica

Israele oggi rappresenta la settima potenza mondiale nel commercio delle armi, utilizzate dai regimi più reazionari e nelle guerre più efferate come in Iraq, Bosnia, Rwanda, El Salvador, Cile… e di un servizio di intelligence tra i primi al mondo.

La scuola israeliana

“Il sistema formativo israeliano è fortemente separato in due indirizzi: generale e tecnologico, a loro volta suddivisi in una babele di scuole statali, religiose statali, bibliche, arabe e druse. Non esiste un approccio pedagogico nazionale univoco. I punteggi in uscita degli studenti sono fortemente influenzati dalla condizione sociale di partenza con i figli dei più ricchi che ottengono punteggi del 40-50% superiori rispetto a quelli dei più poveri. Tali diseguaglianze si spiegano con il fatto che le scuole israeliane sono rette da un regime ultra-liberale di forte autonomia economico-gestionale, introdotto in vari passaggi a partire dagli anni ’90. Significa che i magri sovvenzionamenti statali devono essere integrati dalle risorse private, sopratutto attraverso donazioni e affitto dei locali ai privati. Prendendo il caso di Tel Aviv vediamo che le zone centro settentrionali si accaparrano fondi circa 5 volte superiori a quelli delle periferie povere del sud della città” [https://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=4555:israele-la-scuola-dei-ricchi-e-quella-dei-poveri&catid=26&Itemid=76].

Una realtà politica confusa e in crisi

“A una prima ricognizione degli orientamenti politici israeliani salta agli occhi che se le classi medio-alte tendono a votare per la sinistra progressista che cerca una situazione di maggiore stabilità geopolitica nell’area (accordi di Abramo con l’Arabia Saudita, limitare l’insediamento dei coloni in Cis-Giordania), la classe media è maggiormente orientata verso il Likud di Netanyahu e la sua politica aggressiva nei confronti della Palestina. Le differenti parti della popolazione sono orientate verso i rispettivi partiti, con una trascurabile rappresentatività dei più poveri nelle posizioni di potere. 

Il recente tentativo di riforma della giustizia promosso da Netanyahu ha causato importanti proteste contrarie. In ballo c’era il dare carta bianca alle politiche di annessione nella Cis-Giordania, all’eliminazione dell’ANP e/o all’espulsione delle popolazioni arabe. Politiche contro cui più volte si è espressa la Corte Costituzionale israeliana. Molti commentatori hanno descritto queste proteste come la più grave crisi socio-politica dalla nascita di Israele. In generale la situazione è molto instabile, tra il 2019 e il 2022 ci sono state ben cinque elezioni politiche”. Questa guerra appare come una manna per Netanyahu che altrimenti non sarebbe rimasto in sella e il cui futuro politico è quantomeno incerto. [https://ilmanifesto.it/israele-il-paese-piu-diseguale-ma-leconomia-e-tabu]. A confermare la radicalità dello scontro, il 26 marzo c’è stato uno sciopero generale contro la riforma che ha coinvolto importanti settori (aeroporti, porti, ospedali, università, centri commerciali, scuole, aziende private) ed è stato seguito da numerosi scioperi minori.

La società Israeliana è attraversata da profonde contraddizioni sociali e politiche, in balìa dello scontro tra le molteplici “tribù”, storicamente priva di costituzione e attraversata da profonde frammentazioni interne che potrebbero arrivare a metterne in discussione la stessa esistenza (Limes 3/2023) mentre le sue fondamenta risultano gravemente erose dalla crisi economica mondiale.

Proletari d’Israele

“La forza lavoro in Israele dal 1955 è cresciuta costantemente a un ritmo medio del 3% l’anno. Oggi ci sono per lo meno 4 milioni di proletari, dei quali 3 milioni e 300 mila sono ebrei quasi esclusivamente orientali (qui non compaiono gli israeliani arabi che sono per lo più proletari NDR).

Cresce il numero dei più proletari, la ricchezza si sta gradualmente accumulando nelle mani di pochi, la piccola borghesia va in rovina e allarga le file di un proletariato sempre più numeroso, sempre più robusto.

Palestinesi che lavorano in Israele e all’interno degli insediamenti dei coloni sono circa 130.000, di cui quasi 44.000 senza permesso. Questi sono assegnati a lavori duri e ingrati, che il proletariato israeliano generalmente rifiuta. Sono quasi 22.000 i lavoratori palestinesi che lavorano negli insediamenti ebraici e in genere nella costruzione delle colonie. Il 67% dei palestinesi che lavorano in Israele sono occupati nell’edilizia. La categoria delle costruzioni è un massacro di proletari a causa della mancanza di regole e di negligenze: solo nel 2018 sono morti 38 operai e 170 sono rimasti feriti in incidenti sul lavoro.

Cinquecentomila operai immigrati invece lavorano e vivono in Israele: rappresentano oggi il 27% del proletariato nell’edilizia (la quale a sua volta rappresenta il 7% del valore aggiunto), il 44% nell’agricoltura. Questa tendenza è in costante crescita. Questi flussi migratori riguardano principalmente proletari provenienti dal Sudan, dall’Eritrea, da paesi dell’Europa orientale, dal Sudamerica. Ciò sta trasformando a poco a poco ma in modo non trascurabile la composizione della forza lavoro all’interno dell’economia israeliana, in settori come l’edilizia, l’agricoltura, il turismo e i servizi. 

L’Histadrut continua ad essere il principale sindacato di Israele, da sempre fortemente fedele alle esigenze dello stato sionista. Dopo laceranti riforme interne non ha più un legame organico con lo Stato, ma rimane il sindacato del sistema capitalista e il nemico numero uno di tutto il proletariato. Non sono infatti il Likud, né Akhdut HaAvoda (l’Unione Laburista), né i coloni: è l’Histadrut che sabota dall’interno ogni minima possibilità di uscita dalla collaborazione di classe verso un’alternativa di lotta proletaria. Negli anni ’80, l’80% dei lavoratori erano organizzati, la maggior parte di loro nell’Histadrut; oggi solo il 24% è iscritto ad un sindacato.

All’importazione sistematica di manodopera straniera si aggiunge la rapida crescita demografica, l’aumentata partecipazione del proletariato palestinese nell’economia israeliana e la spinta demografica della popolazione araba all’interno di Israele”. [https://www.international-communist-party.org/Comunism/Comuni86.htm#capitalismoisraele]

Israele oggi dipende sempre più da centinaia di migliaia di lavoratori a contratto non ebrei per sostituire parzialmente i palestinesi ai livelli meno qualificati della forza lavoro. E anche i lavoratori ebrei hanno subìto molti degli attacchi alle proprie condizioni di lavoro e alla propria sicurezza sociale sperimentati dai lavoratori di altri Paesi negli ultimi decenni.

Palestina

La borghesia palestinese

“Nel 2015 la popolazione palestinese era stimata in 12,4 milioni di persone: 4,75 milioni nello Stato di Palestina (di cui 2,9 milioni in Cisgiordania e 1,85 milioni nella striscia di Gaza), 1,47 milioni in Israele (“arabi” di Israele), 5,46 milioni in Paesi arabi (soprattutto in Giordania, Siria e Libano) e 685 000 nel resto del mondo” [https://it.wikipedia.org/wiki/Palestinesi].

“I capitalisti palestinesi possono essere divisi in tre gruppi principali. 1) i capitalisti “espatriati”, che comprendono una borghesia palestinese che è emersa nei paesi arabi, in particolare negli stati del Golfo, così come in Nord America e in Europa. Molti di questi uomini d’affari avevano forti legami con la nascente ANP; 2) i capitalisti locali, composti da due sottogruppi principali: grandi proprietari terrieri che storicamente godevano di una notevole influenza politica e sociale sulle strutture sociali tradizionali e interlocutori che accumulavano ricchezza come subappaltatori per le aziende israeliane dopo l’occupazione del 1967. E infine, i nuovi ricchi che hanno particolarmente beneficiato degli Accordi di Oslo (costituzione dell’ANP).

La “riforma” del settore bancario che ha avuto luogo sotto il governo di Fayyad (2007/2013) è un aspetto importante. Queste riforme hanno permesso al governo di contrarre prestiti a lungo termine che ammontavano a circa 4,2 miliardi di dollari nel 2013, cioè fino al 50% del PIL, con interessi annuali pari a 200 milioni di dollari. Per un’economia in gran parte dipendente dagli aiuti internazionali, questo alto livello di indebitamento del settore pubblico ha minato le basi economiche palestinesi e favorito l’esplosione della corruzione. I modi in cui il denaro è stato speso e come l’Autorità palestinese pagherà i suoi debiti rimangono un mistero. Secondo il Fondo Monetario Palestinese i prestiti individuali ammontavano a circa 1 miliardo di dollari USA nel 2013 contro i circa 494 milioni di dollari nel 2009. Si stima che il 75% dei dipendenti del settore pubblico (94.000 su 153.000) nel 2014 fosse indebitato. L’influenza politica e sociale dei capitalisti clientelari palestinesi e la loro continua normalizzazione economica dell’occupazione israeliana è un fatto universalmente riconosciuto” [https://jacobin.com/2014/02/palestines-capitalists].

“La maggior parte della “grande” borghesia palestinese è presente per lo più in attività commerciali e finanziarie nei paesi arabi (Libano, Siria, Egitto e altri paesi mediorientali), negli Stati Uniti e in Europa. I mercanti e banchieri palestinesi si avvantaggiano del loro stato di rifugiati all’estero e vivono principalmente di attività economiche non produttive, perciò non legate alla necessità di avere una “patria” nella quale essere radicate. I loro interessi finanziari sono collegati alla gestione della Arab Bank, non hanno un giro di affari molto elevato ma è tuttavia sufficientemente sviluppato da permettere agli speculatori palestinesi di operare nel mondo della finanza araba in ogni tipo di speculazione, a partire dal petrolio. 

La borghesia palestinese si presenta politicamente ben separata in due tronconi: Il primo, quello di Fatah e dell’ANP preponderante in Cisgiordania, rappresenta la borghesia finanziaria della diaspora, la borghesia commerciale e in parte imprenditoriale, vuole uno stato per poter iniziare a gestire in casa propria gli affari – non ultimo il gas nascosto in mare davanti Gaza che non può essere estratto per il blocco navale imposto da Israele -. è caratterizzato da una corruzione sistemica ed è il settore che storicamente è stato più disposto a svendere la popolazione palestinese a Israele, riconoscendo lo Stato di Israele nella speranza di godere a sua volta da quest’ultimo di un minimo di riconoscimento. L’Autorità palestinese è il riferimento dell’imperialismo occidentale utilizzato per mantenere nella regione una stabilità sufficiente a non intralciare lo sfruttamento della classe operaia.

Il secondo, quello più indigeno e per lo più di stanza a Gaza, è parzialmente imprenditoriale e artigianale ed è legato al vecchio progetto nazionalistico della riconquista di tutto il territorio palestinese e non soltanto dei territori occupati, il suo principale partito è Hamas, nata nel 1987 dalla propaganda dei Fratelli Musulmani nei campi profughi palestinesi, in seguito pare sostenuta dalla stessa Israele in funzione anti-Fatah e diventata infine porta-voce degli interessi Iraniani nell’area, seguito dalla Jihad Islamica. Il grosso dei suoi fondi derivano dai finanziamenti esteri, in particolare da Iran e Siria” [http://www.leftcom.org/it/articles/2000-11-01/in-palestina] ma anche dal Quatar. 

Fatah e Hamas son i due principali partiti della borghesia palestinese, basati su di un sistema di clan familiari lavorano per rafforzare il proprio dominio sulle risorse del martoriato territorio e, sopratutto, per controllare i massicci flussi finanziari stranieri sotto forma di aiuti da cui origina la profonda e strutturale corruzione di questa borghesia che schiaccia, anche brutalmente, la propria classe operaia in palestina.

Collegamenti imperialisti

Senza approfondire il forte legame tra Fatah e Sionismo, soffermiamoci invece su Hamas. 

“Hamas è un movimento fondato sotto gli auspici dei servizi segreti israeliani per contrastare, con forti tinte religiose, il movimento proletario incontrollato dell’Intifada (1987, prima intifada) e il potere che deteneva allora il movimento laico dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Il movimento di Hamas, con denaro proveniente dallo Shin Bet, i servizi segreti israeliani, ha esteso una rete di servizi sociali ed è andato organizzando progressivamente una rete di seguaci per divenire il probabile successore della resistenza palestinese.

Hamas, come organizzazione armata Islamica originariamente aderente ai Fratelli Musulmani, nacque a Gaza da un gruppo di componenti del clero islamico, studenti e seguaci di Sayyid Qutb. Fin dagli anni Settanta si concentrava sull’assistenza parallela allo Stato dei bisogni sanitari, alimentari e religiosi della popolazione di Gaza. Tutto questo con il sostegno diretto dello Stato sionista e nell’intento di allontanare la popolazione dalla laica OLP, all’epoca indicata come il nemico numero uno dello Stato israeliano. Quindi il fenomeno del fondamentalismo islamico in Medioriente non è un movimento di classi pre-moderne o contadine, ma una creatura dell’imperialismo finanziario e petrolifero della regione e dell’Occidente. Non è un movimento di nazionalisti borghesi pronti alla rivoluzione anti-coloniale. È la creatura del capitalismo imperialista, finanziario e predatore, per le sue manovre e per prevenire la rivolta proletaria. Hamas, obiettivamente, permette all’imperialismo israeliano di giustificare le sue atrocità e la sua guerra permanente, lo spostamento della popolazione palestinese e la conquista di territorio”. [https://www.international-communist-party.org/Comunism/Comuni86.htm#capitalismoisraele]

“L’emiro del Quatar Al Thani finanzia Hamas per circa 30mln di dollari l’anno e ospita nel suo paese i capi del movimento. [https://www.corriere.it/esteri/23_ottobre_26/qatar-doppio-gioco-dell-emirato-che-ricopre-dollari-hamas-ospita-base-militare-usa]

“Dal 2012  il Quatar ha stanziato circa 1mld di dollari per la ricostruzione nella striscia di Gaza. I fondi provenienti dall’Iran erano intorno ai 100mln di dollari l’anno. Nel 2022 le autorità statunitensi stimavano che Hamas avesse un patrimonio di circa 500mln di dollari”. [https://www.cybersecurity360.it/cybersecurity-nazionale/criptovalute-a-sostegno-della-macchina-bellica-di-hamas-cosi-adesso-si-finanzia-il-terrorismo]. 

Oltre a Iran, Arabia Saudita e Qatar, è noto che l’Egitto, i paesi del Golfo, il Sudan, l’Algeria e la Tunisia hanno da sempre offerto la loro entusiastica assistenza ad Hamas, ospitandone anche i capi. Interessante è anche la recente dichiarazione del turco Erdogan a favore di Hamas come “gruppo di liberazione che conduce una battaglia per proteggere le sue terre e la sua gente”.

Dalle e fonti citate traiamo che: 1) tanto Fatah quanto Hamas sono legate a doppio filo alle rispettive forze imperialiste israelo/occidentale e iraniana; 2) importanti e determinanti sono i flussi finanziari che da queste aree vanno a sostenere le diverse fazioni della borghesia palestinese; 3) tali flussi finanziari si giustificano nel progetto di consolidare i rispettivi interessi imperialisti nell’area. Il Quatar si mantiene nella classica posizione di un piede in due scarpe.

Proletari di palestina

“L’occupazione israeliana e la sua politica di colonizzazione, soprattutto dopo gli accordi di Oslo, hanno significato la rovina dei contadini palestinesi, trasformati in proletari, in profughi affamati alla mercè del capitalismo internazionale.

L’agricoltura si è ridotta nel tempo mentre è il settore dei servizi ad essere cresciuto fino a rappresentare il 66,7% degli addetti, le costruzioni il 18% e l’industria fra il 12 e il 13%.

Già oggi nella Palestina storica c’è parità demografica tra arabi ed ebrei, ma in due decenni la popolazione arabo-israeliana è raddoppiata e i proletari stranieri triplicati. La popolazione ebraica cresce solo per l’alta natalità del settore religioso-ultraortodosso. La forza lavoro palestinese è manodopera a buon mercato per la borghesia giordana, siriana e levantina in generale. Edilizia, trasporti e agricoltura israeliana sono i settori in cui lavora. Il muro di separazione, quel muro di cemento sotto il cielo di Al Quds, è stato costruito con mani palestinesi!” [https://www.international-communist-party.org/Comunism/Comuni86.htm#capitalismoisraele].

Secondo l’ILO il tasso di disoccupazione in Palestina si aggira tra il 35 e il 40%. “Molti lavoratori sono impiegati in Israele nell’industria agricola, edile, manifatturiera e dei servizi, o nell’industria tessile in subappalto o in laboratori produttivi clandestini. Per passare i controlli alle frontiere, i lavoratori devono trascorrere lunghe ore di attesa, il che triplica la durata del viaggio per recarsi al lavoro. Solo il 28,7% dei lavoratori palestinesi ha un contratto di lavoro.” [https://www.lavocedellelotte.it/2023/10/11/la-liberazione-palestinese-e-la-classe-operaia-israeliana]. “L’occupazione formale senza contratto di lavoro è comune in Palestina, con il 59% dei lavoratori in Cisgiordania e il 51% nella striscia di Gaza impiegati “informalmente” nel 2019. Ciò implica che non hanno accesso ai meccanismi di protezione sociale e sono più vulnerabili agli shock nel mercato del lavoro” (https://www.acaps.org/fileadmin/Data_Product/Main_media/20211019_acaps_thematic_report_palestine_social_impact_analysis_0.pdf)

Le donne palestinesi lavorano nelle scuole, nell’agricoltura, nel mare spesso indefinito del settore terziario. Il tasso di disoccupazione femminile nel 2018 si assestava al 51%, il doppio di quello maschile. Guadagnano meno, anche la metà del salario maschile. Spesso devono sobbarcarsi la responsabilità di essere la sola fonte di sostentamento familiare e allo stesso tempo garantire la cura di casa e prole. In casi di sfruttamento estremo arrivano ad essere sottopagate fino a due euro al giorno. [https://www.aics.gov.it/oltremare/voci-dal-campo/palestina-donne-e-lavoro]

Gaza

“Gaza misura 375 chilometri quadrati e ospita circa 2 milioni di palestinesi, più della metà dei quali rifugiati.

Grazie al blocco israeliano durato un decennio il tasso di povertà nella Striscia di Gaza ha raggiunto l’80% secondo la Federazione generale palestinese dei sindacati. Inoltre, il 77% delle case erano state distrutte e danneggiate da attacchi israeliani con migliaia di famiglie senza casa o sfollate e un processo di ricostruzione paralizzato. Secondo la Banca Mondiale il tasso di povertà (calcolato con una soglia molto bassa) è stato del 56% nel 2018 rispetto al 19% della Cisgiordania e con due terzi dei giovani disoccupati. Inoltre, le persone a Gaza soffrono di una povertà molto più profonda, con un “divario di povertà” – il rapporto tra il reddito medio dei poveri e la soglia di povertà – quasi sei volte il livello in Cisgiordania. Gaza ha sopportato tre operazioni militari israeliane nel 2007, 2012 e 2014 che hanno gravemente danneggiato le infrastrutture civili e causato gravi vittime. La quota di agricoltura e manifatturiera nell’economia regionale di Gaza è diminuita dal 34 per cento nel 1995 al 23 per cento nel 2018, mentre il loro contributo all’occupazione è sceso dal 26 al 12 per cento” [https://thenextrecession.wordpress.com/2021/05/16/the-unending-nightmare-of-gaza].

“Nel 2022 il tasso di disoccupazione tra i laureati di 19-29 anni era di circa il 73%” [https://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=7431:il-futuro-dei-laureati-di-gaza-poverta-e-lavoro-estenuante&catid=41:reportage&Itemid=81].

Conflitti di classe in palestina

“Quando Hamas ha preso il potere nel 2007, uno dei suoi primi atti è stato quello di reprimere l’attuale Federazione generale palestinese dei sindacati (PGFTU). Quando i sindacati hanno resistito, Hamas ha attaccato le case e gli uffici dei principali sindacalisti con i razzi” (https://www.angryworkers.org/2021/05/25/editorial-3-palestine-israel/).

La manifestazione di lotta proletaria più imponente degli ultimi tempi è stata la protesta del 2011 e del 2012, contemporanea alla Primavera Araba e alla lotta degli Indignati in Israele. Il proletariato scese in piazza in violente manifestazioni di rabbia per difendere le proprie condizioni di vita contro l’aumento delle tasse e della benzina, contrapponendosi direttamente all’Autorità Palestinese.

Più recentemente, nel febbraio 2018 gli addetti alle pulizie del servizio sanitario, dopo che per 5 mesi non avevano ricevuto alcun pagamento, hanno iniziato uno sciopero che ha minacciato di paralizzare tutto il servizio sanitario nella striscia. Questo sciopero si è esteso ai dipendenti statali, con salari ridotti fino al 60%, che all’inizio di aprile in decine di migliaia sono scesi in piazza. I lavoratori si erano resi conto che i salari erano stati tagliati solo quando sono andati a prelevare il denaro alla cassa. A ciò si deve aggiungere che il salario di un impiegato pubblico nella maggior parte dei casi è l’unico sostentamento di una famiglia proletaria.

“A Gaza, nel marzo 2019, il governo guidato da Hamas ha represso le manifestazioni pacifiche contro le difficoltà economiche con percosse, arresti e detenzioni arbitrari, torture e altre forme di maltrattamenti, arrestando più di 1.000 persone” (https://www.amnesty.org/en/latest/press-release/2019/03/gaza-hamas-must-end-brutal-crackdown-against-protesters-and-rights-defenders). Ancora pochi mesi fa i proletari di Gaza protestavano con manifestazioni contro il regime di Hamas accusandolo di intascare per i propri scopi i fondi degli aiuti internazionali e lasciando la popolazione povera in balìa delle interruzioni di corrente, della mancanza di cibo e operando come unica forma di risposta una feroce repressione.

Conclusione

Come si definiscono le due classi sociali in Israele-Palestina? 

La struttura economica dei due Stati determina in Palestina un proletariato molto numeroso e povero con una minoranza borghese corrotta, divisa in due tronconi (Hamas e Fatah) orientati ai due poli imperialisti contrapposti. 

In Israele la fisionomia di classe è molto più complessa, polarizzata tra il milione di ricchi askenaziti che controlla la grande maggioranza del PNL e i quasi quattro milioni di più poveri: arabi, ebrei ortodossi e immigrati, compresi i cittadini palestinesi. In mezzo gli altri ebrei, sopratutto orientali, i Mizharim, che possono essere considerati un ceto medio stratificato a sua volta in più e meno benestanti. Sebbene nella gerarchia ebraica siano inferiori agli ebrei “occidentali”, e proprio per questa condizione accompagnata dall’aspirazione alla “scalata sociale” molti sono coloni: la loro prospettiva di miglioramento della condizione sociale passa per l’espropriazione delle terre palestinesi. Molti sono orientati perciò al Likud. In generale quando sono lavoratori occupano posizioni che potremmo definire di “artistocrazia operaia”, o comunque intermedie tra il comando padronale e il proletariato sfruttato, anche se tra loro non mancano i proletari veri e propri, sebbene in condizioni migliori degli arabi. 

La condizione di classe in Israele e Palestina è emblematica: a un cuore di classe operaia impiegata nelle industrie, nei servizi e in agricoltura corrisponde una vasta quantità di popolazione povera proletarizzata da un lato e un basso ceto medio con proprietà molto limitate (casa, automobile…), ancora tendenzialmente reazionario dall’altro. Tutti questi settori, la maggioranza della popolazione israeliana, hanno visto dal 2008 peggiorare significativamente la loro condizione.

Sintesi politiche:

  1. “I comunisti si distinguono dai restanti partiti proletari solo perché, d’un lato, nelle diverse lotte nazionali dei proletari essi pongono in evidenza e affermano gli interessi comuni di tutto il proletariato, indipendentemente dalla nazionalità; dall’altro, perché essi esprimono sempre l’interesse complessivo del movimento nelle diverse fasi in cui si sviluppa la lotta fra proletariato e borghesia.” (Manifesto del partito comunista, cap.2)
  2. La società palestinese è composta per lo più di proletari. I proletari di Israele sono arabi, immigrati, e almeno una parte ebrei orientali. 
  3. Le divisioni etniche e religiose sono il più grande ostacolo alla solidarietà e all’unificazione dei proletari israeliani. I più numerosi sono gli arabi. L’ideologia dominante nega la contrapposizione di classe che si cela dietro l’intreccio etnico-religioso veicolando valori nazionalisti, cioè identitari e xenofobi (xenofobia=paura del diverso).
  4. Il proletariato palestinese può trovare in quello israeliano un suo alleato e quello israeliano potrebbe arrivare a far oscillare ulteriormente i precari assetti di potere dello stato ebraico. Questo costituirebbe il vero problema per il proseguire della guerra.
  5. La condizione di vita dei proletari in entrambi i paesi peggiora sensibilmente e la nuova fase del conflitto apertasi il 7 ottobre non potrà che esacerbare le contraddizioni di classe fin qui delineate.
  6. Quella che si sta combattendo in Palestina è  una guerra che si colloca su una linea di faglia nello scontro fra gli opposti imperialismi capeggiati in ultima istanza da USA e Cina.
  7. Crisi-ristrutturazione-guerra. Sono tre forze che agiscono in concerto nel capitalismo rimodellando continuamente le relazioni sociali. Le contraddizioni del sistema si manifestano nelle crisi, la borghesia risponde alla crisi con ristrutturazioni volte ad aumentare lo sfruttamento, le ristrutturazioni generano nuovi assetti gravidi di nuove contraddizioni sociali. La guerra fa da sfondo e da modello ultimo di risoluzione delle contraddizioni e della crisi generale. Il proletariato ogni volta ne emerge un po’ trasformato e si aprono nuove problematiche di classe e la classe trova nuove occasioni di contrapposizione. È a partire dalla comprensione concreta delle dinamiche di classe che la prospettiva rivoluzionaria può ricominciare a circolare come risposta concreta e agibile ai problemi concretamente vissuti dai proletari israeliani e palestinesi;
  8. i rivoluzionari che concordano su di una visione di classe della società possono confrontarsi, primo per comprendere assieme, e secondo per dare più forza alla voce dell’internazionalismo, del movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. 

Cronologia sintetica del conflitto Israelo-palestinese

1947 fine del Mandato britannico.

1948  14 maggio il Consiglio nazionale Sionista dichiara costituito lo Stato Ebraico. 26 maggio costituzione delle Forze di Difesa Israeliane. La Lega araba scatena la guerra di liberazione contro Israele. 11 dicembre risoluzione 194 dell’ONU: demilitarizzazione di Gerusalemme e restituzione dei beni (o rimborso) ai palestinesi fuggiti.

1949 armistizio tra Israele e Egitto, Librano, Transgiordania, Siria. Israele occupa il 78% della Palestina mandataria (Linea Verde). Esodo di 750.000 palestinesi (Nakba). Esilio permanente nei campi profughi.

1956 Crisi di Suez. Naser, presidente egiziano, nazionalizza il canale di Suez in alleanza con Siria e Giordania. Occupazione del Sinai da parte di Israele.

1964 nascita dell’OLP guidata da Arafat.

1967 l’Egitto chiude la navigazione alle navi Israeliane nello stretto di Tiran. Scoppia la guerra dei sei giorni. 5/10 giugno. Israele contro Egitto, Siria, Giordania, con l’appoggio di Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Algeria. Il conflitto finisce con la disfatta fulminea degli eserciti arabi e l’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele (Giudea, Samaria, Cisgiordania), della penisola del Sinai e della striscia di Gaza egiziane e delle alture del Golan siriane. Inizio degli insediamenti di coloni israeliani armati in Cisgiordania.

Risoluzione ONU 242: ritiro di Israele dai territori occupati in cambio del riconoscimento dello Stato Israeliano da parte degli stati arabi confinanti.

Inizia l’attività del Fronte Popolare di Liberazione Palestinese.

1967/1970 guerra “d’attrito” con l’Egitto.

1969 Guerre del Libano.

1970 guerra con la Giordania.

1973 guerra dello Yom Kippur. Egitto e Siria attaccano a sorpresa Israele (capo militare Sharon) che perde il controllo del Canale di Suez. Riconoscimento di Israele da parte di Egitto e Giordania. Ultimo coinvolgimento degli stati arabi nelle guerre con Israele: fine delle guerre arabo-israeliane.

1978 restituzione del Sinai all’Egitto (Accordi di Camp David pace Egitto-Israele, la Lega araba si oppone: Fronte del rifiuto). Israele invade il sud del Libano e si crea una zona cuscinetto presidiata dai Caschi Blu.

1980 Israele dichiara Gerusalemme unificata unica capitale e si annette le alture del Golan già occupate.

1982 Israele avvia l’operazione Pace in Galilea e arriva fino a Beirut creando una zona senza palestinesi al confine con il Libano e punta alla distruzione dell’OLP che trasferisce la propria sede in Tunisia. Massacro nei campi profughi di Sabra e Shatila da parte di maroniti e cristiani con il beneplacito di Israele, dimissioni forzate di Sharon da ministro della guerra. Indagini ONU sull’abbandono coercitivo delle terre da parte degli arabi, sulla distruzione delle abitazioni e la limitazione dell’accesso all’acqua.

1987 prima intifada contro il crescente insediamento di coloni in Cisgiordania e a Gaza. Nascita di Hamas.

1988 l’OLP riconosce la risoluzione 242 e, implicitamente, lo stato di Israele.

1993 accordi di Oslo. L’OLP riconosce Israele, avvicinamento tra Arafat e Rabin. Israele si impegna a ritirarsi da Gaza e Gerico in Cisgiordania, nasce l’Autorità Nazionale Palestinese.

1994 accordo con la Giordania, rimane ancora la situazione di conflitto al confine con Libano e Siria.

1995 omicidio di Rabin da parte di un estremista della destra israeliana.

1996 prime elezioni dell’ANP, Arafat presidente, in Israele invece vince la destra di Netanyahu.

1997 ritiro israeliano da Hebron.

1998 ulteriore ritiro israeliano dalla Cisgiordania.

2000 vertice di Camp David. Tra Barak e Arafat, fallito.

Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono continuati ad aumentare (200.000 coloni).“Passeggiata” provocatoria di Sharon alla spianata delle moschee. Seconda intifada, più violenta della prima, attentati suicidi.

2001 Sharon Primo Ministro. Operazione Scudo Difensivo in Cisgiordania.

2002 costruzione del muro di separazione tra Israele e Cisgiordania, oltre la linea verde.

2004 muore Arafat.

2005 Abu Mazen presidente dell’ANP e dell’OLP. Israele abbandona la striscia di Gaza, ma ne controlla i confini e lo spazio aereo. Da questo momento si intensificano gli attacchi (iniziati nel 2001) dalla striscia con razzi e mortaio in sostituzione degli attentati suicidi del decennio precedente.

2006 Hamas vince le elezioni ANP. Sanzioni internazionali contro Hamas. Israele attua il blocco terrestre, aereo e marittimo della striscia.

2007 battaglia di Gaza. Scontro Hamas-Fatah che viene espulsa dalla striscia di Gaza ma mantiene il controllo della Cisgiordania venendo riconosciuta (Fatah) internazionalmente. 

2008 offensiva di terra e attacchi aerei di Israele contro Hamas nella striscia in rappresaglia agli attacchi con i razzi.

2012 nuova offensiva nella striscia.

2014 nuova operazione nella striscia contro Hamas denominata Protective Edge. I coloni In Cisgiordania sono 340.000 più altri 200.000 a Gerusalemme Est.

2016 risoluzione ONU 2334 con richiesta di rispetto dei confini del 1967 e fine degli insediamenti di coloni.

2019 fitto lancio di razzi da parte di Hamas durante la festività religiosa dello Shabbat.

2023 7 ottobre Hamas lancia l’operazione “inondazioni di Al-Aqsa”, il più grave attacco subito da Israele nella sua storia. Segue la reazione di Israele con l’invasione di Gaza tutt’ora in corso.

Tra il 2008 e il 2020 i morti palestinesi sono stati 5.600 e 115.000 i feriti, quelli israeliani 250 e 5.600 i feriti  [https://www.ochaopt.org/data/casualties#]


3 risposte a “Come si pone la questione di classe in Israele-Palestina?”

  1. Un compagno ci fa arrivare il seguente commento al documento che apprezziamo nella sua problematicità e pubblichiamo di seguito:

    Si tratta di un lavoro piuttosto documentato e fatto con buone intenzioni, ma ci sono alcuni punti che non mi convincono.
    Prendiamo il punto 2 delle conclusioni. “La società palestinese è composta per lo più di proletari. I proletari di Israele sono arabi, immigrati, e almeno una parte ebrei orientali”.
    Questo enunciato tende ad escludere che fra gli ebrei aschenaziti esitano i proletari. Questo assunto si ricollega a quanto si afferma poche righe sopra: “In Israele la fisionomia di classe è molto più complessa, polarizzata tra il milione di ricchi askenaziti che controlla la grande maggioranza del PNL e i quasi quattro milioni di più poveri: arabi, ebrei ortodossi e immigrati, compresi i cittadini palestinesi. In mezzo gli altri ebrei, soprattutto orientali, i Mizharim, che possono essere considerati un ceto medio stratificato a sua volta in più e meno benestanti. Sebbene nella gerarchia ebraica siano inferiori agli ebrei “occidentali”, e proprio per questa condizione accompagnata dall’aspirazione alla “scalata sociale” molti sono coloni: la loro prospettiva di miglioramento della condizione sociale passa per l’espropriazione delle terre palestinesi. Molti sono orientati perciò al Likud. In generale quando sono lavoratori occupano posizioni che potremmo definire di “artistocrazia operaia”, o comunque intermedie tra il comando padronale e il proletariato sfruttato, anche se tra loro non mancano i proletari veri e propri, sebbene in condizioni migliori degli arabi”.
    In realtà le cose non sono proprio così. I mizrahi sono generalmente più poveri degli ashkenazim, ma probabilmente non sono “più proletari”. In Israele negli ultimi anni si è assistito a un rapido declino dell’importanza del peso dell’agricoltura, un tempo molto importante, nel complesso dell’economia israeliana. In tempi precedenti molti mizrahi integrati nei moshav, la versione più “familistica” (più adatta alla mentalità degli ebrei vissuti nel cuore della società araba tradizionale) del kibbutz, costituivano una figura spuria a metà strada fra il coltivatore diretto e il salariato che partecipava agli utili del prodotto dei terreni coltivati collettivamente. In sostanza appartenevano alle mezze classi. Diverso soltanto in parte è il caso dei kibbutz che è stato l’elemento di forza del sionismo per attrarre in Palestina gli ebrei dell’Europa orientale influenzati prevalentemente dalle idee socialiste e spesso appartenenti al Bund: a costoro non si poteva dire di andare ad edificare lo Stato ebraico lavorando sotto padrone. Il lavoratore del kibbutz produce merci, oggi anche alta tecnologia, viene pagato in parte in natura dato che i consumi all’interno della piccola comunità sono collettivi (si mangia in comune e l’educazione dei bambini è collettiva), poi riceve una parte in denaro e partecipa agli utili aziendali dato che l’isoletta “collettivista” galleggia nell’oceano mercantile. Dunque anche il membro del kibbutz è una figura socialmente spuria dato che riceve un salario (prevalentemente in natura) e una quota di profitto aziendale (prevalentemente in denaro).
    Negli ultimi decenni sia il kibbutz che il moshav hanno perso di peso specifico nell’economia israeliana sempre più improntata al privatismo esasperato e ai principi del neoliberismo. Questo ha favorito la polarizzazione fra ricchezza e miseria in tutte le sottocomponenti etniche. Negli anni successivi al 2008 Israele quasi non avverti la crisi, ma col tempo i guasti si sono fatti sentire e la proletariazzazione di strati sociali piccolo-borghesi è andata avanti. Poi occorre non confondere il saggio di sfruttamento (cioé plusvalore diviso salario), con la miseria. Israele è un paese in cui la composizione organica del capitale è molto alta. Non a caso dedica circa il 5% del Pil alla ricerca (in Italia lo 0,9%) e questo ne fa un hub dell’alta tecnologia mondiale e spiega i fiorenti scambi di prodotti molto sofisticati con Russia e Cina e con molti paesi dell’Asia meridionale verso la quale si è orientata una parte assai cospicua delle esportazioni manifatturiere. Ora se il salariato ebreo aschenazita che lavora in questo settore ha uno stipendio superiore ai 3.000 dollari, questo può farne una persona che si sente “cittadino incluso” dello Stato ebraico, ma non cambia di molto la sua natura di proletario che tecnicamente può essere ancora più sfruttato di quanto non lo sia l’immigrato palestinese o asiatico che lavora nell’edilizia e ha un’esistenza assai più penosa anche se magari al primo viene estratto più plusvalore che al secondo. I comunisti devono però lavorare per unificare tutto il proletariato, al di là degli intrecci di interessi particolari con cui il regime del capitale divide la classe lavoratrice.

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