
Movements in the Crisis – A Map as of November 2025. English translation below. La crisi capitalista produce moti di rivolta nella periferia imperialista, iniziamo un analisi internazionalista di questo fenomeno con una mappa che considera cos’è successo nell’ultimo periodo in: Sri Lanka, Kenya, Bangladesh, Indonesia, Nepal, Marocco, Madagascar, Iran
Sri Lanka – Aragalaya (“La lotta”, 2022)
Nel 2022 lo Sri Lanka è stato travolto da una delle più vaste mobilitazioni popolari della sua storia recente. Il paese era precipitato in una crisi economica senza precedenti: carenza di carburante e di gas da cucina, blackout quotidiani, inflazione fuori controllo, riserve valutarie esaurite e una gestione autoritaria da parte della famiglia Rajapaksa, al potere da quasi vent’anni. Queste condizioni hanno innescato un’ondata di rabbia collettiva che, a partire da marzo, si è trasformata in un movimento di massa noto come Aragalaya, “la lotta”.
Le prime proteste sono esplose nei quartieri popolari di Colombo e si sono estese rapidamente a tutto il paese. Migliaia di giovani, studenti e lavoratori hanno dato vita a sit-in, marce e presidi permanenti. Il cuore del movimento è diventato il Galle Face Green, una grande spianata affacciata sull’Oceano Indiano, dove è sorta una tendopoli autogestita – ribattezzata “GotaGoGama”, il villaggio “Vattene Gotabaya” – che per mesi ha rappresentato il centro politico e simbolico della mobilitazione. L’uso dei social media è stato decisivo per coordinare le azioni, diffondere notizie e sfuggire alla censura governativa.
La svolta è arrivata con l’ingresso massiccio della classe lavoratrice. Dopo settimane di esitazione dei vertici sindacali, più di mille organizzazioni del lavoro sono state spinte dai propri iscritti a proclamare, il 28 aprile, il primo sciopero generale in oltre quarant’anni. In quella giornata si sono fermati i trasporti, i porti, le ferrovie, gli uffici pubblici, le scuole, gli ospedali e perfino gran parte dei negozi privati. La partecipazione è stata altissima: milioni di lavoratori, dal settore pubblico a quello privato, hanno paralizzato il paese chiedendo le dimissioni immediate del presidente e la fine della corruzione sistemica.
Pochi giorni dopo, il 6 maggio, un secondo sciopero generale ha portato a una nuova paralisi nazionale: bus e treni fermi, scuole e ministeri chiusi, solo i servizi d’urgenza garantiti negli ospedali. In risposta, il presidente Gotabaya Rajapaksa ha dichiarato lo stato di emergenza e ordinato l’intervento dell’esercito per reprimere la protesta. La violenza della repressione non ha però fermato la mobilitazione: gli scioperi hanno mostrato la capacità del proletariato di bloccare l’economia e di trasformare un movimento di piazza in una crisi politica strutturale.
Il 9 luglio 2022 la folla ha fatto irruzione nella residenza presidenziale di Colombo, costringendo Rajapaksa alla fuga e, pochi giorni dopo, alle dimissioni. L’Aragalaya ha così ottenuto la caduta del governo e la fine dell’egemonia della famiglia Rajapaksa, ma il paese è rimasto intrappolato nella recessione e nell’instabilità politica. La vittoria del movimento, pur parziale, ha rappresentato un momento di rottura storica: la dimostrazione che studenti, disoccupati e lavoratori uniti potevano sfidare un regime autoritario e incrinare le basi del potere oligarchico.
Le principali rivendicazioni economiche e politiche emerse dall’Aragalaya riguardavano la fine del nepotismo e della corruzione, il controllo pubblico delle risorse, il congelamento dei debiti con il Fondo Monetario Internazionale, il ritorno dei beni sottratti dalle élite e la costruzione di una democrazia realmente partecipativa. Anche dopo la fuga del presidente, queste istanze hanno continuato a circolare nei consigli popolari e nei collettivi sindacali, testimoniando che la lotta per la giustizia sociale e per la sovranità economica restava aperta.
Kenya – Proteste contro la Finance Bill (2024)
Nel giugno 2024 il Kenya è stato attraversato da un’ondata di proteste senza precedenti contro la Finance Bill 2024, un disegno di legge che prevedeva nuovi aumenti fiscali su beni di prima necessità e servizi di largo consumo. L’introduzione di tasse su pane, olio da cucina, carburante, veicoli e transazioni digitali – compreso il mobile money, strumento vitale per milioni di persone – è stata percepita come un attacco diretto alle condizioni di vita del proletariato urbano. Il provvedimento, giustificato dal governo come misura di “responsabilità fiscale”, ha invece esacerbato la rabbia di una popolazione già colpita da inflazione, disoccupazione e tagli ai servizi pubblici.
Le proteste, organizzate e coordinate sui social network attraverso l’hashtag #RejectFinanceBill2024, sono state guidate in larga parte dalla Generazione Z: giovani nati tra la fine degli anni ’90 e i primi Duemila, digitalmente alfabetizzati e socialmente consapevoli, ma spesso intrappolati nella precarietà. Tra i protagonisti vi erano studenti, neolaureati, insegnanti e infermieri giovani, freelance dell’economia digitale, call centeristi, rider, piccoli commercianti e lavoratori informali dei quartieri popolari.
La composizione sociale del movimento è stata fortemente ibrida: accanto al proletariato “classico” dei settori industriali, pubblici e dei servizi, hanno partecipato frazioni di piccola borghesia impoverita e un vasto strato di lumpen-proletariato giovanile urbano, formato da disoccupati e sottoccupati della gig economy. Tutti accomunati dall’aumento vertiginoso del costo della vita e dal senso di tradimento verso il presidente William Ruto, che aveva costruito la propria campagna elettorale sulla promessa di rappresentare gli hustlers, i poveri che si arrangiano con mille lavori.
Le manifestazioni sono iniziate a Nairobi e si sono rapidamente diffuse in tutto il paese. Cortei, presidi, blocchi stradali e giornate di sciopero spontaneo hanno paralizzato numerosi settori produttivi, dai trasporti al commercio. I social media hanno svolto un ruolo decisivo nella mobilitazione: attraverso campagne coordinate e reti di solidarietà digitale, i giovani hanno costruito una vera infrastruttura comunicativa dal basso, capace di sostituirsi ai canali sindacali tradizionali.
L’ampiezza della partecipazione e la determinazione dei manifestanti hanno costretto il governo a rispondere con la repressione. Gli scontri tra polizia e manifestanti hanno provocato decine di morti e centinaia di feriti, mentre in molte città si registravano arresti arbitrari e chiusure temporanee di Internet. Nonostante la violenza, la pressione popolare è aumentata fino a costringere il governo, alla fine di giugno, a ritirare le disposizioni fiscali più contestate.
Il ruolo dei sindacati è stato marginale. La principale centrale, la Central Organization of Trade Unions (COTU-K), ha espresso contrarietà al disegno di legge ma si è mantenuta su posizioni moderate, evitando di proclamare uno sciopero generale. Questa inattività ha spinto i lavoratori a organizzarsi autonomamente, dando vita a un’ondata di scioperi spontanei e proteste locali nate dal basso, spesso in aperta contrapposizione ai vertici sindacali. La mobilitazione, pur priva di una direzione centralizzata, ha generato una vera e propria paralisi de facto dell’economia nazionale.
Le rivendicazioni emerse dalla lotta sono state nette: cancellazione delle tasse sulla vita quotidiana, riduzione del costo dei beni essenziali, politiche attive per l’occupazione giovanile, salario minimo adeguato e fine della corruzione dilagante. Ma accanto alle richieste economiche si è imposta una dimensione politica più profonda: la domanda di rappresentanza, trasparenza e giustizia sociale, in un paese dove il divario tra élite e popolazione lavoratrice continua ad allargarsi.
Le proteste del 2024 hanno mostrato che la Generazione Z keniana, erede diretta delle contraddizioni del neoliberismo africano, è oggi capace di trasformare la rabbia economica in azione politica collettiva. In questo senso, la rivolta contro la Finance Bill non è stata solo una contestazione fiscale, ma un segnale di risveglio di classe: la presa di parola di un proletariato giovane, connesso e deciso a sfidare un ordine economico che lo esclude dal futuro.
Bangladesh – La Rivoluzione di luglio (2024)
Tra la primavera e l’estate del 2024 il Bangladesh è stato scosso da un movimento di massa che ha unito studenti, giovani lavoratori e settori del proletariato urbano in una protesta che, partita da una questione amministrativa, si è trasformata in una vera sollevazione popolare contro l’autoritarismo del governo. Tutto è cominciato a maggio, quando la Corte Suprema ha deciso di reintegrare una quota del 30 % dei posti nel pubblico impiego riservata ai discendenti dei combattenti della guerra d’indipendenza del 1971. Una misura percepita come profondamente iniqua, che penalizzava la maggioranza dei giovani laureati e rafforzava il nepotismo in un sistema già dominato da clientelismo e corruzione.
La reazione è stata immediata. Nelle università di Dhaka e Chittagong gli studenti hanno occupato i campus, avviando scioperi e cortei quotidiani che presto hanno coinvolto altre città del paese. Il movimento, nato come “Quota Reform Movement”, ha assunto rapidamente un carattere politico più ampio, chiedendo non solo l’abolizione del sistema di quote, ma anche la fine del regime autoritario di Sheikh Hasina, al potere dal 2009, accusato di corruzione, repressione e gestione disastrosa dell’economia.
Le proteste si sono estese a tutto il paese tra giugno e luglio, trasformandosi in un fronte sociale di ampiezza inedita. Migliaia di giovani lavoratori, insegnanti, impiegati, tassisti e soprattutto operai del settore tessile — spina dorsale dell’economia nazionale — hanno aderito alle manifestazioni. In molte aree industriali si sono registrati scioperi spontanei e blocchi delle strade, che hanno paralizzato la produzione. Tuttavia, nonostante la partecipazione di ampi settori proletari, non si è giunti a un vero sciopero generale coordinato: i sindacati, spesso controllati dal governo o timorosi della repressione, si sono mantenuti in posizione ambigua o defilata.
Il potere ha reagito con estrema violenza. Le forze di sicurezza hanno sparato sulla folla, imposto coprifuochi e oscurato Internet. Secondo fonti universitarie e organizzazioni per i diritti umani, le vittime sono state più di quattrocento, con migliaia di feriti e centinaia di arresti. Nonostante la brutalità della repressione, la protesta è cresciuta fino a diventare una vera rivolta nazionale.
Il 5 agosto 2024, sotto la pressione della piazza e del dissenso interno al partito, la prima ministra Sheikh Hasina si è dimessa e ha lasciato il paese. Pochi giorni dopo è stato annunciato un governo ad interim guidato dal premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, incaricato di traghettare il Bangladesh verso nuove elezioni. La caduta di Hasina ha rappresentato la fine di un ciclo politico lungo quindici anni e ha segnato una svolta storica per il paese.
Le rivendicazioni centrali del movimento, ormai ribattezzato “Rivoluzione di luglio”, sono state la fine della corruzione e del nepotismo, la democratizzazione del sistema politico, la libertà di stampa, il diritto di associazione sindacale e la redistribuzione delle risorse a favore dei lavoratori. Accanto alle parole d’ordine politiche si è imposta anche una piattaforma sociale: aumenti salariali nel tessile, riduzione del costo della vita, garanzie per l’occupazione giovanile e protezione contro gli abusi delle forze di sicurezza.
La “Rivoluzione di luglio” ha mostrato che la questione di classe e quella democratica, in Bangladesh, sono inseparabili. La protesta studentesca si è saldata con la rabbia dei lavoratori e dei poveri urbani, dando vita a un fronte popolare che ha rovesciato un governo autoritario e aperto la possibilità di una nuova stagione politica. Ma la transizione resta fragile: l’eredità di disuguaglianze e ingiustizie sociali che ha alimentato la rivolta continua a gravare sul futuro del paese.
Indonesia – Proteste contro la legge sul lavoro (2024–2025)
Nel 2024 l’Indonesia ha vissuto una nuova ondata di mobilitazioni operaie contro la precarietà, i bassi salari e la crescente disuguaglianza sociale. La scintilla è scoppiata nel maggio di quell’anno, quando migliaia di lavoratori hanno manifestato in tutto il paese per chiedere un aumento del salario minimo, il divieto del sub-appalto e una regolamentazione più giusta dei contratti temporanei. A rendere ancora più esplosivo il clima è stata la diffusione della notizia che i membri del parlamento percepivano indennità abitative e compensi mensili enormi, in un momento in cui milioni di lavoratori non riuscivano a coprire i costi di cibo, trasporti e alloggi.
Le prime manifestazioni hanno coinvolto soprattutto i lavoratori dell’industria manifatturiera e del settore tessile, con cortei e scioperi che hanno attraversato Jakarta, Surabaya e Bandung. In molte città le fabbriche hanno chiuso per ore, mentre sindacati locali e movimenti autonomi hanno organizzato sit-in e presidi davanti agli uffici governativi. A fianco dei lavoratori si sono uniti studenti universitari, insegnanti precari, autisti della gig economy e piccole cooperative di rider digitali, portando in piazza un composito blocco sociale.
Nel corso del 2025 la protesta è esplosa di nuovo con forza. Alla fine di agosto, decine di migliaia di manifestanti sono tornati nelle strade di Jakarta, Yogyakarta e Medan, denunciando non solo le condizioni economiche, ma anche il privilegio delle élite politiche. Gli slogan contro la corruzione e contro i “parlamentari milionari” si sono intrecciati con quelli per la giustizia sociale e il lavoro dignitoso. Il movimento ha mostrato una capacità crescente di coordinamento attraverso i social media, ma anche una forte componente autorganizzata e decentralizzata, spesso in contrasto con le grandi centrali sindacali, accusate di ambiguità e compromesso.
Diversi osservatori hanno segnalato la presenza visibile di collettivi anarchici e di gruppi libertari, che si sono inseriti nel movimento portando pratiche di azione diretta e una visione non istituzionale della protesta. Queste componenti hanno contribuito a radicalizzare il linguaggio e i metodi della mobilitazione, promuovendo forme di solidarietà mutualistica e occupazioni temporanee degli spazi pubblici. Pur rappresentando una minoranza, hanno incarnato la dimensione più conflittuale e auto-organizzata della protesta, in sintonia con le esperienze dei giovani lavoratori e studenti più marginalizzati.
La risposta del governo è stata dura. Le forze di sicurezza hanno disperso i cortei con gas lacrimogeni, manganelli e arresti di massa. Centinaia di attivisti sono stati accusati di “atti anarchici” e di “terrorismo interno”, in un clima di crescente criminalizzazione del dissenso. Nonostante la repressione, le mobilitazioni hanno costretto l’esecutivo ad aprire un tavolo di negoziazione con alcuni rappresentanti sindacali e a promettere la revisione parziale della legge sul lavoro.
Dalle piazze indonesiane è emerso un messaggio chiaro e coerente: il rifiuto di un modello economico fondato sul lavoro povero e sull’arricchimento di una minoranza politica. Le principali rivendicazioni hanno riguardato l’aumento dei salari, la fine dell’outsourcing e dei licenziamenti di massa, la lotta alla corruzione e la redistribuzione delle risorse pubbliche. Insieme alle richieste economiche si è affermata una domanda di dignità e di democrazia sostanziale, espressa da un proletariato giovane, frammentato ma sempre più consapevole della propria forza collettiva.
Le proteste del 2024–2025 hanno così rivelato una contraddizione profonda dell’Indonesia contemporanea: un paese in crescita economica ma attraversato da una diffusa povertà del lavoro, dove le promesse di sviluppo convivono con il malcontento di milioni di lavoratori che chiedono non solo più salario, ma più potere sulle proprie vite.
Nepal – Proteste contro la corruzione e la censura (2025)
A fine agosto 2025 il governo del presidente Ram Chandra Poudel ha imposto il divieto di ventisei piattaforme social media, tra cui TikTok, X e Facebook, con il pretesto di contrastare la disinformazione e tutelare la sicurezza nazionale. La decisione è stata accolta come un gesto apertamente autoritario, volto a silenziare il dissenso politico e a proteggere un sistema di potere dominato da corruzione e nepotismo. A questa censura digitale si è sommata una grave crisi economica: l’inflazione crescente, la disoccupazione giovanile e la stagnazione dei salari hanno alimentato un diffuso senso di ingiustizia sociale, in particolare nelle aree urbane.
Le prime manifestazioni sono esplose l’8 di settembre 2025 a Kathmandu, dove studenti universitari, giornalisti indipendenti, lavoratori del settore digitale e giovani precari hanno organizzato cortei e sit-in contro il governo. In pochi giorni la protesta si è estesa a Pokhara, Biratnagar e ad altre città, assumendo un carattere nazionale. Per aggirare la censura, i manifestanti hanno utilizzato VPN, app decentralizzate e sistemi di messaggistica alternativi, trasformando il blackout informativo in un laboratorio di resistenza digitale. Le parole d’ordine più ripetute, “No to corruption, yes to connection” e “We are the generation that can’t be muted”, hanno espresso la rivolta di una generazione che non intendeva più essere esclusa dal dibattito pubblico.
Tra il 7 e l’8 settembre la tensione è salita alle stelle. La polizia ha tentato di disperdere i cortei con gas lacrimogeni e proiettili di gomma, provocando numerosi feriti. Il 9 settembre, migliaia di persone hanno circondato il complesso parlamentare di New Baneshwor. Dopo ore di scontri, i manifestanti hanno sfondato le recinzioni, facendo irruzione nell’edificio; un incendio divampato all’interno ha distrutto parte del Parlamento, divenendo il simbolo della rottura definitiva tra la popolazione e l’élite politica. Nello stesso giorno, di fronte alla pressione della piazza e al rischio di un collasso istituzionale, il primo ministro Pushpa Kamal Dahal (Prachanda) ha rassegnato le dimissioni.
La partecipazione è stata ampia e trasversale: accanto agli studenti e ai giornalisti, sono scesi in strada lavoratori dei trasporti, addetti ai servizi, impiegati pubblici e piccoli commercianti. In alcune zone industriali si sono registrate brevi serrate e scioperi spontanei in solidarietà con i manifestanti. Per la prima volta dopo anni, il proletariato urbano e la nuova generazione di lavoratori della gig economy hanno agito fianco a fianco, uniti dalla stessa frustrazione verso un sistema che concentra ricchezza e potere nelle mani di pochi.
Le rivendicazioni emerse sono state chiare: abolizione del divieto dei social media e tutela della libertà digitale, inchieste indipendenti sulla corruzione e sul nepotismo governativo, riforma fiscale per ridurre le disuguaglianze, politiche attive per l’occupazione giovanile e per la stabilità dei salari, trasparenza amministrativa e pieno riconoscimento dei diritti sindacali, in particolare nei settori dei servizi e del lavoro digitale.
La repressione è stata violenta: decine di feriti, numerosi arresti e accuse di “sovversione” nei confronti di studenti e giornalisti. Nonostante ciò, la mobilitazione non si è spenta e ha aperto un nuovo ciclo di lotte civiche e sociali. Il movimento del 2025 ha mostrato come la crisi del sistema politico nepalese sia anche una crisi di classe: la frattura tra una gioventù senza prospettive e una classe dirigente corrotta si è tradotta in una rivolta sociale in cui libertà digitali, diritti politici e condizioni materiali di vita si fondono in un’unica domanda di cambiamento.
Marocco – Proteste giovanili contro corruzione e disuguaglianza (2025)
Nel corso del 2025 il Marocco è stato attraversato da una delle più ampie mobilitazioni giovanili degli ultimi decenni. Il malcontento è esploso in un contesto di corruzione endemica, disoccupazione giovanile in costante crescita e disuguaglianze sociali sempre più marcate. L’annuncio di nuovi investimenti miliardari per la preparazione della Coppa del Mondo di calcio del 2030 ha agito da detonatore, alimentando la percezione che le priorità del governo fossero rivolte alle grandi opere e all’immagine internazionale del Paese, piuttosto che ai bisogni quotidiani della popolazione. La sensazione di abbandono, soprattutto tra i giovani delle periferie urbane, è divenuta insostenibile.
Le prime manifestazioni sono iniziate alla fine di settembre, nelle grandi città di Rabat, Casablanca e Marrakech, promosse da un collettivo di giovani attivisti conosciuto come GenZ 212. Inizialmente pacifiche, le proteste denunciavano la mancanza di lavoro, la corruzione diffusa e l’assenza di prospettive economiche. Nel giro di pochi giorni, però, la mobilitazione si è estesa a Tangeri, Fès e Agadir, coinvolgendo studenti, lavoratori precari, disoccupati e piccoli commercianti. I cortei hanno scandito slogan come “Gli stadi ci sono, ma dove sono gli ospedali?”, trasformando la rabbia sociale in una critica aperta alla distribuzione ineguale delle risorse.
Nelle prime settimane di ottobre, la situazione è precipitata. Alcuni scontri con la polizia hanno provocato feriti e arresti, e in varie città sono stati incendiati veicoli delle forze dell’ordine e edifici pubblici, simboli del potere percepito come distante e corrotto. Le autorità hanno reagito con una dura repressione: decine di manifestanti sono stati incarcerati, centinaia feriti, e diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato l’uso eccessivo della forza. In molte città, tuttavia, i cortei hanno continuato a riempire le strade, alimentati dal sostegno dei quartieri popolari e dei giovani lavoratori del settore informale.
Sotto la pressione crescente della piazza, il re Mohammed VI è intervenuto pubblicamente, riconoscendo la necessità di affrontare la crisi sociale e annunciando riforme mirate a migliorare istruzione, sanità e accesso al lavoro. Le dichiarazioni, tuttavia, non hanno placato del tutto la protesta, che ha continuato a rappresentare un grido collettivo di frustrazione contro un sistema percepito come bloccato, dominato da élite politiche ed economiche impermeabili al cambiamento.
Le rivendicazioni emerse da questa ondata di mobilitazione sono state chiare e radicali: lotta alla corruzione e agli sprechi pubblici, investimenti concreti in sanità e istruzione, politiche per l’occupazione giovanile e maggiore trasparenza nell’uso delle risorse statali. Accanto alle richieste economiche, si è affermata anche un’esigenza politica più profonda: una richiesta di partecipazione ai processi decisionali e una democratizzazione effettiva della vita pubblica.
Madagascar – Proteste e cambio di governo (2025)
In seguito a interruzioni ripetute dei servizi essenziali — in particolare lunghe sospensioni di acqua e corrente elettrica nella capitale Antananarivo e in altri centri urbani — si è accentuato il malcontento verso un sistema politico accusato di corruzione, nepotismo e incapacità di rispondere alle esigenze della popolazione.
Le mobilitazioni sono iniziate alla fine di settembre 2025, quando giovani disoccupati, attivisti civici e studenti si sono radunati in massa davanti alla sede della società elettrica nazionale, denunciando «non più solo i blackout, ma l’intero modello di potere». Le manifestazioni hanno ben presto assunto una dimensione nazionale, raggiungendo città come Toamasina, Antsirabe e Toliara. I cortei sono stati accompagnati da sit-in, scioperi spontanei di piccoli commercianti e blocchi stradali: è stato segnalato che lavoratori informali, autisti, venditori ambulanti e dipendenti dei servizi hanno aderito alle proteste. Il 25 settembre le autorità hanno imposto il coprifuoco nella capitale dopo scontri che hanno provocato morti e feriti. Nel corso delle settimane successive la tensione è cresciuta, e il movimento è diventato un elemento destabilizzante per il governo del presidente Andry Rajoelina. Il parlamento ha avviato un processo di impeachment e a metà ottobre l’unità d’élite militare CAPSAT ha preso il controllo del paese, imponendo la sospensione di vari organismi costituzionali e annunciando la nomina del colonnello Michael Randrianirina come leader provvisorio. Il cambio di potere è stato accolto in parte dai manifestanti giovanili come l’effetto della mobilitazione, anche se finora non è chiaro in che misura sia stato guidato dalla piazza o dall’esercito.
Il movimento ha avanzato rivendicazioni quali: miglioramento immediato dei servizi idrici ed elettrici, aumento delle opportunità occupazionali per i giovani, lotta alla corruzione e al nepotismo nelle élite politiche, trasparenza nell’uso delle risorse pubbliche, maggiore voce e partecipazione giovanile nella governance del paese.
Il risultato di questa mobilitazione è stato un cambio improvviso del regime politico: l’esercito ha assunto il potere e il presidente Rajoelina ha lasciato l’incarico. Questo colpo di mano militare ha sollevato gravi questioni di democraticità, ma al contempo ha rappresentato per molti giovani la legittimazione di una protesta che chiedeva riforme radicali. Restano forti incognite sul futuro: l’instabilità politica si accentua, il cammino verso una reale democrazia appare incerto, e la condizione materiale della maggioranza — disoccupazione, informalità, servizi scadenti — continua ad essere un fattore di rischio sociale.
Iran – Scioperi e proteste (2025)
Tra aprile e novembre 2025 l’Iran è stato attraversato da una nuova ondata di proteste e scioperi che ha unito lavoratori, studenti, impiegati pubblici e settori popolari in un fronte comune contro inflazione, corruzione e autoritarismo. Dopo anni di sanzioni internazionali e recessione, la moneta nazionale ha perso oltre la metà del suo valore, i salari sono rimasti fermi mentre il costo dei beni essenziali – pane, carburante, medicine – è aumentato vertiginosamente. L’apparato di potere, dominato dal presidente Masoud Pezeshkian e dalle Guardie Rivoluzionarie, ha continuato a spendere risorse nella difesa e nella propaganda, mentre i servizi pubblici e sanitari collassavano.
Le prime manifestazioni del 25 aprile 2025 sono state guidate dagli insegnanti e dagli infermieri del settore pubblico, che chiedevano il pagamento degli stipendi arretrati e contratti stabili. Nelle settimane successive, a maggio e giugno, la protesta si è estesa ai lavoratori del petrolio e della chimica nelle raffinerie di Abadan, Bandar Abbas e Ahvaz, paralizzando impianti strategici e portando alla formazione di comitati spontanei di fabbrica. Alcuni di questi comitati hanno diffuso appelli per la creazione di un coordinamento nazionale dei lavoratori, segno di una crescente consapevolezza politica.
Tra luglio e agosto gli studenti universitari di Teheran, Isfahan e Mashhad hanno organizzato cortei e assemblee in solidarietà con gli scioperanti, rilanciando gli slogan di Donna, Vita, Libertà in chiave economica e sociale. Giovani precari e lavoratori informali hanno occupato temporaneamente piazze e università, denunciando disoccupazione e nepotismo. Nel sud industriale, in particolare a Shiraz e Tabriz, si sono moltiplicati i blocchi stradali e le occupazioni di stabilimenti, mentre piccoli commercianti hanno chiuso in segno di protesta.
Tra fine agosto e settembre la repressione è stata durissima. Le forze di sicurezza hanno usato gas lacrimogeni, proiettili di gomma e arresti di massa; oltre 500 persone sono state detenute, tra cui numerosi sindacalisti e giornalisti. I media indipendenti sono stati oscurati e le piattaforme social bloccate in diverse province. Nonostante ciò, in ottobre e novembre la protesta è ripresa con scioperi coordinati nei trasporti, nella sanità e nel settore educativo. Nei quartieri popolari di Teheran si sono tenute manifestazioni notturne e sit-in davanti ai ministeri, mentre nel Kurdistan iraniano si sono riaccesi scontri locali tra giovani ribelli e forze di sicurezza.
Le rivendicazioni economiche e politiche sono state precise: aumento dei salari in linea con l’inflazione, pagamento regolare degli stipendi, diritto all’organizzazione sindacale autonoma, reintegro dei lavoratori licenziati per motivi politici, fine della corruzione e della gestione militare delle risorse pubbliche, riduzione delle spese belliche e liberazione dei detenuti politici. Alcuni collettivi di lavoratori hanno anche chiesto la creazione di consigli locali per il controllo democratico delle imprese statali, un’istanza che ha preoccupato le autorità.
L’autunno del 2025 ha mostrato che la crisi iraniana è ormai sistemica: il malcontento non riguarda più soltanto le élite urbane o i movimenti studenteschi, ma coinvolge il proletariato industriale, i lavoratori dei servizi e i ceti medi impoveriti. Le rivolte sociali di quest’anno hanno rivelato un paese attraversato da profonde fratture di classe
Movements in the Crisis – A Map as of November 2025
The capitalist crisis is generating uprisings on the imperialist periphery. We begin an internationalist analysis of this phenomenon with a map summarizing what has happened recently in: Sri Lanka, Kenya, Bangladesh, Indonesia, Nepal, Morocco, Madagascar, Iran.
Young protesters in Nepal take a selfie in front of the burning parliament building
Sri Lanka – Aragalaya (“The Struggle”, 2022)
In 2022, Sri Lanka was overwhelmed by one of the largest popular mobilisations in its recent history. The country had plunged into an unprecedented economic crisis: shortages of fuel and cooking gas, daily blackouts, runaway inflation, depleted foreign currency reserves, and authoritarian management by the Rajapaksa family, which had been in power for almost twenty years. These conditions triggered a wave of collective anger that, starting in March, grew into a mass movement known as Aragalaya, “the struggle”.
The first protests erupted in working-class neighbourhoods of Colombo and quickly spread nationwide. Thousands of young people, students and workers organised sit-ins, marches and permanent encampments. The heart of the movement became Galle Face Green, a large oceanfront lawn where a self-managed tent city — renamed GotaGoGama, “Go Home Gotabaya Village” — symbolised the centre of political and symbolic resistance for months. Social media played a decisive role in coordinating actions, spreading information and circumventing government censorship.
The turning point came with the massive entry of the working class. After weeks of hesitation by union leaders, more than a thousand labour organisations were pushed by their members to call, on 28 April, the first general strike in over forty years. Transport, ports, railways, public offices, schools, hospitals and even many private shops shut down. Participation was enormous: millions of workers, both public and private, paralysed the country, demanding the immediate resignation of the president and an end to systemic corruption.
A second general strike on 6 May brought another nationwide shutdown. In response, President Gotabaya Rajapaksa declared a state of emergency and ordered the army to repress the protests. Repression, however, did not stop the mobilisation: the strikes revealed the ability of the proletariat to halt the economy and transform a street movement into a structural political crisis.
On 9 July 2022, crowds stormed the presidential residence in Colombo, forcing Rajapaksa to flee and resign days later. Aragalaya thus succeeded in toppling the government and ending the Rajapaksa family’s domination, although the country remained trapped in recession and political instability. The movement’s partial victory marked a historic rupture, showing that students, the unemployed and workers united could challenge authoritarian rule and destabilise oligarchic power.
The movement’s main economic and political demands included ending nepotism and corruption, public control of resources, freezing IMF debt repayments, recovering wealth stolen by elites, and building a genuinely participatory democracy. Even after the president fled, these demands continued to circulate in popular councils and union collectives, showing that the struggle for social justice and economic sovereignty remained open.
Kenya – Protests Against the Finance Bill (2024)
In June 2024, Kenya was swept by unprecedented protests against the Finance Bill 2024, a draft law introducing new tax increases on essential goods and widely used services. Taxes on bread, cooking oil, fuel, vehicles and digital transactions — including mobile money, vital for millions — were perceived as a direct attack on the living conditions of the urban proletariat. Though framed by the government as “fiscal responsibility”, the bill intensified anger in a population already affected by inflation, unemployment and cuts to public services.
The protests, organised on social media through the hashtag #RejectFinanceBill2024, were led largely by Generation Z: young people born in the late 1990s and early 2000s, digitally literate and socially aware, yet trapped in precariousness. Students, recent graduates, young teachers and nurses, digital freelancers, call centre employees, delivery riders, small traders and informal workers all took part.
The movement had a socially hybrid composition: alongside the “classic” proletariat of industrial, public and service sectors, there were impoverished petty-bourgeois layers and a broad stratum of urban lumpen-proletarians, including the unemployed and underemployed of the gig economy. All were united by soaring living costs and a sense of betrayal by President William Ruto, who had campaigned as the champion of the hustlers, the poor who survive through multiple jobs.
The protests began in Nairobi and quickly spread nationwide. Marches, sit-ins, roadblocks and spontaneous strike days paralysed many economic sectors. Social media created a powerful grassroots communication network that effectively replaced traditional union channels.
The government responded with repression. Clashes between protesters and police caused dozens of deaths and hundreds of injuries; arbitrary arrests and temporary Internet shutdowns were reported in many cities. Despite violence, popular pressure mounted until the government was forced, in late June, to withdraw the most contested fiscal measures.
The unions played a marginal role. The main federation, COTU-K, opposed the bill but avoided calling a general strike. Workers thus organised autonomously, launching spontaneous strikes and grassroots protests that created a de factonational paralysis without central leadership.
The movement’s demands included eliminating taxes on essential goods, reducing living costs, active policies for youth employment, a decent minimum wage and ending corruption. Alongside economic demands emerged a deeper political dimension: the demand for representation, transparency and social justice in a country marked by widening inequality.
The 2024 protests showed that Kenyan Gen Z — shaped by the contradictions of African neoliberalism — could transform economic anger into collective political action. The uprising against the Finance Bill was not just a tax revolt, but a signal of class awakening by a young, connected proletariat determined to challenge an economic order that excludes them from the future.
Bangladesh – The July Revolution (2024)
Between spring and summer 2024, Bangladesh was shaken by a mass movement uniting students, young workers and sectors of the urban proletariat. What began as a protest over an administrative issue soon turned into a full-scale popular uprising against government authoritarianism.
The spark came in May, when the Supreme Court reinstated a 30% quota in public sector jobs for descendants of the 1971 independence war veterans — a measure widely perceived as unjust, reinforcing nepotism in a system already dominated by clientelism and corruption.
Students in Dhaka and Chittagong immediately responded by occupying university campuses and organising daily strikes and marches. The “Quota Reform Movement” quickly broadened into a larger political confrontation, demanding not only the abolition of the quota system but also the end of Sheikh Hasina’s authoritarian rule. Hasina, in power since 2009, was accused of corruption, repression and disastrous economic management.
By June and July the movement had spread nationwide. Thousands of young workers, teachers, office employees, taxi drivers and especially garment workers — the backbone of the economy — joined. Industrial areas saw spontaneous strikes and roadblocks that paralysed production. Yet, despite significant working-class participation, no coordinated general strike emerged: unions, often close to the government or fearful of repression, kept their distance.
The state responded with extreme violence. Security forces fired on crowds, imposed curfews and shut down the Internet. University sources and human rights groups estimated more than 400 dead, thousands injured and hundreds arrested. Despite repression, the uprising grew into a national revolt.
On 5 August 2024, under mounting pressure, Sheikh Hasina resigned and left the country. An interim government led by Nobel laureate Muhammad Yunus was appointed to guide the transition. Hasina’s fall marked the end of a fifteen-year political cycle and a historic turning point.
The central demands of what became known as the “July Revolution” included ending corruption and nepotism, democratising the political system, protecting press freedom, guaranteeing union rights and redistributing resources in favour of workers. A social platform emerged as well: wage increases in the garment sector, lower living costs, youth employment and protection from security force abuses.
The July Revolution demonstrated that, in Bangladesh, democratic and class issues are inseparable. Student protest joined with the anger of workers and the urban poor, forming a popular front capable of toppling an authoritarian government. Yet the transition remains fragile: the inequalities and injustices that fuelled the uprising continue to threaten the country’s future.
Indonesia – Protests Against Labour Laws (2024–2025)
In 2024, Indonesia witnessed a renewed wave of labour protests against precarious work, low wages and rising inequality. The spark came in May, when thousands of workers demonstrated nationwide demanding higher minimum wages, a ban on outsourcing and fair regulation of temporary contracts. Outrage grew after it was revealed that members of parliament were receiving huge housing allowances and monthly compensation while millions struggled to afford food, transport and housing.
The first demonstrations were led by manufacturing and textile workers, with marches and strikes in Jakarta, Surabaya and Bandung. Factories closed for hours, while local unions and autonomous groups organised sit-ins in front of government offices. University students, precarious teachers, gig drivers and small cooperatives of digital riders joined, creating a broad social coalition.
In 2025 the protests reignited. In late August, tens of thousands returned to the streets of Jakarta, Yogyakarta and Medan. Anti-corruption slogans and attacks on “millionaire MPs” were combined with demands for social justice and dignified work. The movement showed strong coordination through social media but remained largely decentralised and autonomous, often in tension with major union federations accused of compromise.
Observers reported the visible presence of anarchist and libertarian collectives promoting direct action, mutual aid and temporary occupations of public spaces. Though a minority, these groups contributed to the more radical tone of the mobilisation, resonating with marginalised youth and workers.
The government responded with harsh repression: tear gas, baton charges and mass arrests. Hundreds of activists were accused of “anarchic acts” or “domestic terrorism”. Despite this, the protests forced the government to open negotiations and promise partial revisions to labour laws.
The movement’s demands were clear: wage increases, an end to outsourcing and mass layoffs, anti-corruption measures and redistribution of public resources. Alongside economic demands emerged a call for dignity and substantive democracy, articulated by a young, fragmented but increasingly self-aware proletariat.
The 2024–2025 protests revealed a profound contradiction in contemporary Indonesia: an economy in growth marked by widespread “working poverty”, where development promises coexist with the discontent of millions demanding not only higher wages, but more power over their lives.
Nepal – Protests Against Corruption and Censorship (2025)
In late August 2025, President Ram Chandra Poudel’s government banned twenty-six social media platforms — including TikTok, X and Facebook — under the pretext of combating disinformation and protecting national security. The move was widely seen as an authoritarian attempt to silence dissent and shield a system marked by corruption and nepotism. This digital censorship combined with a severe economic crisis: rising inflation, youth unemployment and stagnant wages fed widespread social anger, particularly in urban areas.
The first protests erupted on 8 September 2025 in Kathmandu, where university students, independent journalists, digital-sector workers and precarious youth held marches and sit-ins. Within days, the protests spread to Pokhara, Biratnagar and other cities. To evade censorship, demonstrators used VPNs, decentralised apps and alternative messaging systems, turning the information blackout into a space for digital resistance. Popular slogans such as “No to corruption, yes to connection” and “We are the generation that can’t be muted” expressed a generation refusing to be excluded from public debate.
Between 7 and 8 September, tensions peaked. Police attempted to disperse crowds with tear gas and rubber bullets, causing many injuries. On 9 September, thousands surrounded the New Baneshwor parliamentary complex. After hours of clashes, protesters breached the barriers and stormed the building. A fire broke out inside, destroying part of the parliament and becoming the symbol of the definitive rupture between the people and the political elite. That same day, under massive pressure, Prime Minister Pushpa Kamal Dahal (Prachanda) resigned.
Participation was broad and cross-class: alongside students and journalists, transport workers, service employees, public officials and small traders joined. Some industrial areas saw brief shutdowns and spontaneous strikes. For the first time in years, the urban proletariat and gig-economy workers acted together, united by frustration at a system concentrating wealth and power in the hands of few.
The movement’s demands included restoring access to social media and protecting digital freedoms, independent investigations into corruption, fair taxation to reduce inequality, youth employment policies, wage stabilisation, administrative transparency and full recognition of union rights, especially in services and digital labour sectors.
Repression was severe, with many injured, numerous arrests and charges of “subversion” against students and journalists. Despite this, mobilisation continued and opened a new cycle of civic and social struggle. The 2025 movement revealed that Nepal’s political crisis is also a class crisis: a confrontation between a directionless, precarious youth and a corrupt ruling class.
Morocco – Youth Protests Against Corruption and Inequality (2025)
In 2025, Morocco experienced one of its largest youth-led mobilisations in decades. Anger erupted amid endemic corruption, rising youth unemployment and deepening inequality. Announcements of massive investments in preparation for the 2030 FIFA World Cup acted as a trigger, fuelling the perception that the government prioritised mega-projects and international prestige over everyday needs. Feelings of neglect, especially among urban peripheral youth, became unbearable.
The first protests began in late September in Rabat, Casablanca and Marrakech, led by a youth collective known as GenZ 212. Initially peaceful, demonstrations denounced unemployment, corruption and lack of prospects. Within days, protests spread to Tangier, Fez and Agadir, involving students, precarious workers, unemployed youth and small traders. Chants such as “There are stadiums, but where are the hospitals?” transformed social anger into criticism of unequal resource distribution.
By early October, clashes with police escalated. Vehicles and public buildings were set on fire in several cities. Authorities responded with harsh repression: dozens were imprisoned and hundreds injured, prompting denunciations from human rights organisations. Yet marches continued, supported by working-class neighbourhoods and informal-sector youth.
Under growing pressure, King Mohammed VI publicly acknowledged the crisis and announced reforms to improve education, healthcare and access to employment. These promises, however, failed to fully quell the mobilisation, which remained a collective outcry against a system seen as stagnant and dominated by unaccountable elites.
The movement’s central demands included fighting corruption and public waste, investing in healthcare and education, youth employment policies and more transparency in state resource management. Alongside economic grievances came a deeper political demand: participation in decision-making processes and real democratisation of public life.
Madagascar – Protests and Change of Government (2025)
Repeated disruptions of essential services — especially prolonged water and electricity outages in Antananarivo and other cities — intensified discontent with a political system accused of corruption, nepotism and inability to address basic needs.
The first protests erupted in late September 2025, when unemployed youth, civic activists and students gathered en masse outside the national electricity company, denouncing “not just the blackouts, but the entire power structure”. Demonstrations soon spread nationwide, reaching Toamasina, Antsirabe and Toliara. Sit-ins, spontaneous strikes by small traders and roadblocks were reported, with participation from informal workers, drivers, street vendors and service-sector employees. On 25 September, authorities imposed a curfew in the capital after clashes that caused deaths and injuries. In the following weeks, tensions escalated and the movement destabilised President Andry Rajoelina’s government. Parliament initiated impeachment proceedings, and in mid-October the elite military unit CAPSAT seized control, suspending constitutional bodies and appointing Colonel Michael Randrianirina as provisional leader. Protesters partially welcomed the power shift as a result of the mobilisation, though it remains unclear how much was driven by the streets versus the military.
The movement’s demands included immediate improvement of water and electricity services, youth employment opportunities, anti-corruption measures, transparency in public resource use and greater youth participation in governance.
The mobilisation resulted in an abrupt regime change: the army seized power and Rajoelina stepped down. The coup raised serious democratic concerns, but many young protesters viewed it as a vindication of their calls for radical reform. Uncertainties remain: political instability is deepening, democratic prospects are unclear and material conditions — unemployment, informality, poor services — continue to pose a major social risk.
Iran – Strikes and Protests (2025)
Between April and November 2025, Iran experienced a new wave of protests and strikes uniting workers, students, civil servants and popular sectors against inflation, corruption and authoritarianism. After years of sanctions and recession, the national currency had lost more than half its value, wages stagnated, and prices of essentials — bread, fuel, medicine — soared. The state apparatus, dominated by President Masoud Pezeshkian and the Revolutionary Guards, continued spending on defence and propaganda while public services collapsed.
The first demonstrations on 25 April 2025 were led by teachers and nurses demanding payment of overdue salaries and stable contracts. In May and June, protests spread to oil and chemical workers in the refineries of Abadan, Bandar Abbas and Ahvaz, paralysing strategic facilities and prompting the formation of spontaneous factory committees. Some committees called for a national workers’ coordination, signalling growing political awareness.
In July and August, university students in Tehran, Isfahan and Mashhad held marches and assemblies in solidarity with striking workers, reviving the “Woman, Life, Freedom” slogan in economic and social terms. Precarious youth and informal workers temporarily occupied squares and campuses, denouncing unemployment and nepotism. In industrial centres in the south — notably Shiraz and Tabriz — roadblocks and factory occupations multiplied, while small shopkeepers closed in protest.
Between late August and September, repression intensified. Security forces used tear gas, rubber bullets and mass arrests; more than 500 people were detained, including unionists and journalists. Independent media were blocked, and social platforms shut down in several provinces. Despite repression, protests resumed in October and November with coordinated strikes in transport, healthcare and education. In working-class neighbourhoods of Tehran, nightly demonstrations and sit-ins occurred, while in Iranian Kurdistan renewed clashes erupted.
The movement’s demands were clear: wage increases in line with inflation, regular payment of salaries, the right to independent union organisation, reinstatement of workers fired for political reasons, ending corruption and military control of public resources, reducing war spending and releasing political prisoners. Some workers’ collectives also called for local councils to democratically control state-owned enterprises, alarming the authorities.
