Riflessioni sulla “pace” a Gaza


La situazione è in divenire, gli elementi singoli qui riportati possono modificarsi, l’impianto generale che sorregge questa breve analisi ci sembra invece valido al di la degli avvenimenti contingenti.

Una tregua spacciata per pace.

Si parla di pace ma in realtà si tratta di una tregua, di un cessate il fuoco, per altro parziale. Perché Israele continua ad uccidere gazawi e palestinesi anche in Cisgiordania, mentre impedisce agli aiuti umanitari di accedere a Gaza, con la scusa della mancata consegna di tutti i cadaveri degli ostaggi. Come se i cadaveri dei morti valessero più della vita dei vivi. Così è a quanto pare.

Nel frattempo, Hamas cerca di ristabilire l’ordine, il suo ordine, all’interno della Striscia, regolando i conti con clan e famiglie rivali più o meno sostenute da Israele (nel continuo piano di destabilizzare i suoi acerrimi nemici, o mezzi amici, ma dipende dal momento, ci torneremo più avanti sul legame tra loro). Il gioco delle parti continua, ognuno che persegue i propri scopi di dominio e potere, da una parte e dall’altra. In mezzo a pagarne le conseguenze sono sempre i proletari ed i diseredati della terra, oggi i gazawi domani qualcun altro. Nostro è il sangue, nostra la fame, nostra la disperazione, mentre altri giocano sulla nostra pelle per spartirsi la posta in palio. 

Resistenza o sopravvivenza? Sarebbe una farsa se non fosse tragedia.

Sulla celebrazione dell’accordo come trionfo della fantomatica resistenza, stendiamo un velo pietoso. Si tratta di una sconfitta totale dal punto di vista militare e politico subita da Hamas, organizzazione decimata numericamente e ridotta ad accettare la smilitarizzazione e la cessione del controllo politico della striscia, ma spacciata per una grande e storica vittoria.

Ci chiediamo come facciano molti compagni a sostenere la Resistenza palestinese (per altro sarebbe meglio chiamarla sopravvivenza). In primis perché la resistenza è rappresentata da Hamas, quando questa non è stata altro che un agente dell’imperialismo israeliano per fratturare quella presunta resistenza rappresentata da Al-Fatah, in seguito ANP, ed il suo fronte di liberazione della Palestina, tra l’altro oggi corrotto fino al midollo e ieri fintamente tinteggiato di rosso. Organizzazione, Hamas, per altro, su posizioni apertamente reazionarie ed anti-proletarie come quelle dell’integralismo islamico.

Ci chiediamo come si faccia a celebrare un evento come il 7 ottobre che non ha nulla a che fare con la lotta di classe e nemmeno con la lotta di liberazione dal dominio sionista (o, per essere più esatti, imperialista, visto che il sionismo è la forma che ha assunto l’imperialismo israeliano). Una strage di civili solo perché israeliani, un atto figlio del peggior nazionalismo, per altro agevolato, se non apertamente organizzato, dallo stesso Stato Israeliano (ci sono buchi nelle difese israeliane difficilmente giustificabili: disattivazione dei sistemi di rilevamneto, mancato pattugliamneto, 6 h di ritardo nell’intervento post attaccato mentre la stampa era già li a raccontare il massacro in diretta tv, etc.) nel chiarissimo intento di giustificare quello che poi è stato, a tutti gli effetti, un genocidio, e che purtroppo è ancora lontano dal finire.

Celebrare il 7 ottobre significa celebrare il nazionalismo, l’integralismo religioso e allo stesso tempo la scusa che serviva ad Israele per sviluppare i propri progetti imperialisti attraverso lo sterminio dei gazawi e l’occupazione della striscia. Sostenere Hamas, che è nata e cresciuta grazie ai finanziamenti del suo acerrimo nemico, attraverso l’aiuto del Qatar ed il sostegno dell’Iran, ognuno dei quali sostiene i propri grandi o piccoli progetti imperialisti e null’altro, è roba che non ha nulla a che fare con la lotta per l’emancipazione della popolazione palestinese. Ammesso e non concesso che essa possa concretizzarsi attraverso strade nazionaliste. Ovviamente l‘affermazione è retorica poiché è storicamente dimostrato che qualsiasi movimento di liberazione nazionale non ha mai liberato il proprio popolo dal dominio coloniale (popolo parola mistificante nella misura in cui mette tutte le classi sociali che abitano un paese sulla stesso piano, come se avessero interessi comuni) ma ha semplicemente permesso, alla propria borghesia nazionale, di gestire in prima persona i propri affari, ovvero di sfruttare direttamente il “suo” proletariato e le “sue risorse”. Tutto ciò ovviamente sotto il cappello di un imperialismo, vendendo perciò di fatto il proprio “popolo” a potenze straniere. Dalla padella alla brace. Si parla di liberare ma in realtà si parla di libertà di sfruttare, che siano i gazawi o le risorse della sua terra o del suo mare.

Se una volta, e in teorie, le lotte di liberazione nazionale erano finalizzate a rendere indipendenti le borghesie di quei paesi, oggi, nell’epoca dell’imperialismo, al massimo si può parlare di passare da una sfera di influenza ad un’altra, poiché è strettissima la dipendenza alle centrali imperialiste di riferimento, che siano Usa, Russia o Cina poco cambia per i comunisti.

Fate gli affari non fate la guerra. A proposito del board for peace.

Tant’è che la rincorsa a spartirsi la torta è iniziata già in Egitto, a Sharm El Sheik, località rinomata per il turismo, si parlava di ricostruire Gaza come una nuova località turistica. Ironia della sorte, una terra promessa non per popoli eletti o il messia di turno ma per speculatori, costruttori e petrolieri. Non a caso l’organismo che si occuperà di costruire Gaza non sarà altro che una sorta di CdA:” Il “Board of Peace” richiama molto l’idea di un consiglio di amministrazione (un “board”, appunto), che dovrà gestire un affare economico e finanziario colossale, un consiglio che avrà Trump come presidente. Il piano Trump in 20 punti, al paragrafo 9 recita: “Questo organismo (Board of Peace, ndr) definirà il quadro di riferimento e gestirà i finanziamenti per la ricostruzione di Gaza”. Gestirà i soldi, proprio come un CdA che si rispetti. E le logiche finiranno per essere quelle del business e non della convivenza internazionale; dell’interesse privato e non dell’interesse pubblico”. Tony Blair inserito nel fantomatico organismo internazionale che dovrà gestire la ricostruzione – soprattutto i miliardi di finanziamento che verranno stanziati da stati e “soggetti interessati”, dicasi aziende pronte ad approfittare del business della ricostruzione –  è direttamente legato alla British Petroil, ovviamente interessata alla gestione e allo sfruttamento del gas sottomarino situato davanti alle coste di Gaza (da anni conteso da tante aziende del settore tra cui l’italiana Eni), Steve Witkof alle cronache come inviato Usa in medioriente è un milardario dell’immobiliarre, alias palazzinaro, così come il genero di Trump, Jared Kushner, altro pezzo da 90 del nuovo organismo. Le premesse per una grande abbuffata ci sono tutte e anche l’Italia vuole la sua parte come già dichiarato dal Ministro Tajani “L’Italia è pronta a fare la sua parte”. Questa la sua dichiarazione alla camera: “In seguito alla firma dell’accordo di pace per il Medio Oriente, l’Italia ha prontamente avviato un’azione coordinata per elaborare una strategia efficace destinata alla gestione delle emergenze e la ricostruzione della Striscia di Gaza. L’obiettivo è identificare gli interventi più urgenti e realizzabili nel breve termine con particolare attenzione al sostegno umanitario e sanitario, sviluppando al contempo un piano organico e sinergico tra tutte le istituzioni e i soggetti coinvolti” . Comprendiamo bene che per “soggetti coinvolti” si intendono aziende specializzate nelle costruzioni e nello sfruttamento dei giacimenti. Anche l’imperialismo straccione italiano vuole la sua parte.

Dalla forza del diritto al diritto della forza. Trumpismo fase attuale dell’imperialismo USA

Il tutto presieduto dal deus ex machina del momento, Donald J. Trump. Che mentre reclama il nobel per la pace (per una pace che non è), ringrazia Bibi (Netanyahu) per l’ottimo lavoro svolto e minaccia di finire il lavoro. La guerra è pace e la pace è guerra diceva qualcuno, non ci sorprenderebbe se oltre a questo board per la pace si prefigurasse anche un Ministero dell’amore, di Orwelliana memoria, ovviamente dedito alla tortura e al dolore, come sono le prigioni israeliane.

Nel mentre Trump diventava il nuovo vate della pace nel mondo tutte le strutture del diritto internazionale spacciateci per decenni come funzionali a mantenere la pace nel mondo e la “giustizia” cadevano come fantocci. Dal bombardamento della missione Unifil all’appoggio del piano di Trump, l’inutilità manifesta dell’ ONU si è mostrata come mai prima d’ora. Che fosse dai suoi albori l’organizzazione dei predoni imperialisti per la spartizione del mondo è risaputo, ma è a oggi una struttura inutile per gli stessi fini che si era proposta, ovvero il mantenimento degli equilibri interimperialistici e la moderazione dei conflitti. Fallito su tutta la linea, presa a schiaffi, anzi bombe in faccia senza colpo ferire. I suoi membri più inclini ad esporsi rispetto al massacro di Gaza tacciati di antisemitismo e stigmatizzati alla stregua di terroristi. Il diritto internazionale umiliato pubblicamente, così come il suo garante, la corte internazionale di giustizia, disconosciuta e pubblicamente invisa.

La fase attuale della democrazia imperialista è caratterizzata da una deriva apertamente autoritaria che toglie il velo all’ipocrisia dell’equità del diritto, per mostrare la cruda e spietata violenza del più forte. Come sempre è stato il diritto è il diritto del più forte. Di Israele in medio oriente, perché esso ha sempre rappresentato gli interessi dell’imperialismo americano ed occidentale (nella sua contraddittoria dinamica di relazione e subordinazione) nel teatro mediorientale, degli Stati Uniti e del suo Presidente, che dentro i suoi confini procede a suon di retate anti immigrati, minacce di arresto dei dissidenti politici e di intervento dell’esercito nelle strade, e nei teatri del mondo bombardando, mettendo veti o minacciando attraverso ultimatum e aut aut. Non sorprende che il nobel per la pace l’abbia vinto una sua aperta sostenitrice, Maria Corina Machado, che dopo aver chiamato Netanyahu per complimentarsi con lui per le azioni compiute durante la guerra (quindi per il massacro di civili compiuto) ha sostenuto pubblicamente la crociata contro l’asse del male iraniano – sia detto per inciso, sarà un caso, ma il Venezuela è il primo paese al mondo per riserve petrolifere e Donald lo guarda sfregandosi le mani.

Sembra un racconto distopico ma è la triste realtà che il capitalismo ci sta regalando e che con il peggiorare della crisi economica e l’inasprirsi dello scontro inter-imperialistico è solo destinato a peggiorare a meno che…  Il proletariato faccia la sua ricomparsa sulla scena della storia come soggetto sociale e non più come mero oggetto di sfruttamento.

Per un opposizone proletaria ed anticapitalista alla guerra

L’assurdità di un mondo sempre più propenso a sacrificare vite umane per alimentare la ricchezza di pochi è oggi come non mai davanti ai nostri occhi. Un genocidio in diretta streaming, raccontato minuto per minuto col suo portato di menzogne e mistificazioni, dall’idea di cosa questa società possa avvallare e tollerare pur di perseguire interessi commerciali: distruzione, morte, predazione e sfruttamento sono le sole cose che questo sistema è in grado di offrirci. 

Ci si indigna per una vetrina rotta si stigmatizza qualche scontro di strada, perché la violenza che viene dal basso è sempre deprecabile,  sia per la destra che per la sinistra del capitale,  mentre si giustifica un genocidio, o al massimo lo si denuncia con finalità elettorali (non dimentichiamoci dei legami della sinistra istituzionale con Israele) solo per non toccare alleati troppo forti e troppo necessari per la propria politica economica. Qualsiasi forza sieda o voglia sedere in parlamento punta esclusivamente alla gestione dello Status quo, quando il problema è il suo rovesciamento.

Costruire un’alternativa a questa barbarie non è solo una necessità ma un dovere di tutta l’umanità.

Costruire un opposizione alla guerra e alle spinte nazionaliste che la sostengono, dentro un’ottica di classe ed una prospettiva anticapitalista è ciò per cui lavoriamo.

Confrontarsi ed organizzarsi su questi temi è oggi come non mai impellente. 


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