Contro la distruzione di Gaza, riflessioni intorno alla Global Sumud Flottiglia


Il ruolo di Israele, la cancellazione della questione palestinese, le contraddizioni del proletariato arabo, le prospettive.

Il 16 settembre l’esercito israeliano ha iniziato l’invasione di Gaza. Questo segna un ulteriore passo avanti nella guerra di distruzione di Gaza, nell’annientamento del popolo palestinese e di ciò che rimane della Palestina.

La Global Sumud Flottiglia, le decine di imbarcazioni cariche di aiuti umanitari salpate il 31 agosto dal porto di Barcellona e dirette a Gaza, ha un forte significato simbolico: rompere il blocco navale che colpisce Gaza da anni, aprire un canale di aiuti umanitari alla popolazione martoriata dall’assedio e dalla guerra di Israele. Ma anche numerose contraddizioni tra le quali l’aspetto esclusivamente umanitario, l’insistere sulla questione nazionale e una certa ambiguità rispetto ai rapporti istituzionali. Proveremo ad affrontare dal punto di vista internazionalista almeno alcuni di questi problemi. Nel riflettere su questi aspetti si sovrappongono diversi piani politici: la questione imperialista e nazionale israeliana e la questione palestinese; gli aspetti umanitari della guerra e del suo rifiuto; le difficoltà nel far attecchire una visione di classe del problema.

Il blocco navale di Gaza

Partiamo dal problema del blocco navale di Gaza, una striscia di terra chiusa tra alte mura sorvegliate militarmente dall’esercito israeliano (IDF). Già dagli anni ’90 Israele aveva limitato l’approdo ai porti di Gaza. Dal 2007, in seguito alla presa del controllo della striscia da parte di Hamas, nessuna barca o nave poteva più approdare nei porti di Gaza o entrare nelle sue acque territoriali. Dal 7 ottobre 2023 è stata vietata anche la pesca. Come noto il blocco navale, unito al blocco di terra da parte di Israele ed Egitto, comportano che anche l’ingresso degli aiuti umanitari sia ridotto al minimo. Per i due milioni di abitanti della striscia la situazione si fa ogni giorno più difficile, con l’IDF che bombarda e i suoi cecchini che sparano su chi è in fila per ricevere i minimi aiuti che vengono concessi. Rispetto a tale drammatica situazione, nella quale quotidianamente bambini e adulti muoiono di fame, di bombe, sotto i colpi dei cecchini, in un territorio ormai ridotto ad un cumulo di macerie, dal quale non è possibile uscire. Rispetto a questo indescrivibile dramma che si svolge sotto gli occhi di tutti noi, l’impresa della Flottiglia ha avuto il merito di smuovere le coscienze.

Il ruolo di Israele oggi. 

Il progetto israeliano è brutalmente semplice: la completa distruzione di Gaza e della Cisgiordania intesi come insediamenti palestinesi, con la conseguente dispersione e deportazione di tutta la popolazione locale, ormai ritenuta superflua, e annessione definitiva di questi territori allo stato israeliano.

Un tale progetto non è riducibile alla volontà politica del sionismo o della destra israeliana. Al contrario, queste sono l’espressione di un preciso ruolo che è assegnato allo stato ebraico all’interno dei rapporti inter-imperialisti mondiali: Israele è il gendarme degli interessi occidentali, e in particolare degli USA, in Medio Oriente. Su questo piano ritaglia il proprio ruolo e i propri interessi specifici nell’area .

Questo è stato Israele fin dalla sua nascita nel 1948. La questione arabo-israeliana è da allora il termometro, l’indicatore, la misura, dei rapporti di forza tra potenze nell’area medio orientale. Il continuo martirio della popolazione palestinese degli ultimi 80 anni è un sacrificio determinato dalle esigenze, in divenire, dello scontro tra potenze.

Il salto di qualità nell’odierna guerra medio orientale indica il livello di attrito e il punto di rottura oggi raggiunto nella competizione interimperialista nell’area. Si è trattato e si tratta di rideterminare gli assetti complessivi dell’area in funzione occidentale e di ridimensionare – se non spazzare via del tutto – ogni bastione funzionale al blocco imperialista avverso, identificati nella presenza regionale dell’Iran e negli interessi russi e cinesi. Il livello politico-militare della guerra e i suoi obiettivi rispondono a questo tipo di necessità. 

Via del cotone Vs Via della seta

Lo scontro odierno può essere sintetizzato, in termini economico-commerciali, nella rivalità  tra la nuova via della seta, Belt and Road Initiative (BRI), promossa dalla Cina, e la via del cotone, India–Middle East–Europe Economic Corridor (corridoio IMEC), patrocinato dagli USA. Se la politica di controllo del Medio Oriente da parte degli USA data dalla fine della seconda Guerra Mondiale, il corridoio IMEC è stato lanciato al G20 di Nuova Delhi nel 2023. Anche se oggi è sostanzialmente fermo a causa della guerra, il progetto prevede di collegare l’India via mare fino al Golfo Persico e poi via ferrovia attraverso la Penisola Arabica, per arrivare sulle coste del Mediterraneo. Il nuovo corridoio logistico garantirebbe un accesso multiplo al Mediterraneo, non più solo attraverso il canale di Suez (dove transita fra il 9 e il 12% del traffico commerciale mondiale via mare), con un vantaggio strategico per USA e Europa. In Italia a beneficiarne sarebbero soprattutto i due porti “ascellari” di Genova e Trieste, che rappresentano i principali scali di collegamento fra il Mediterraneo e i mercati del Nord Europa. In questo quadro si inserisce anche il progetto del canale Ben Gurion che avrebbe l’effetto di bypassare anche il canale di Suez, ponendo totalmente i traffici tra Oceano Indiano e Mediterraneo sotto il controllo della fortezza Israele. Il Canale sfocerebbe a nord  di Gaza. 

Il riassetto del Medio Oriente

Nel quadro di tale competizione geopolitica tra potenze, Stati Uniti e Israele perseguono da tempo un piano di destabilizzazione dell’area volto a favorirne il controllo attraverso politiche di contenimento e tutela dei propri interessi di sicurezza. In alcuni casi gli interventi occidentali hanno prodotto o accentuato fragilità statali — in Iraq (2003) e in Libia (2011) — con effetti di frammentazione di lungo periodo. Va oggi aggiunta la Siria dopo che per anni Israele ha condotto “campagne tra le guerre” per ostacolare il rafforzamento iraniano e i trasferimenti di armi a Hezbollah. Iran e Afghanistan sono stati in larga misura isolati attraverso le sanzioni e il non riconoscimento internazionale. Le monarchie del Golfo sono storiche alleate di Washington, pur mantenendo autonomia su energia e partner economici (scelte OPEC+, rallentamento degli accordi di Abramo, rafforzamento dei legami con la Cina). Dopo le Primavere arabe, che avevano visto un generale risveglio della conflittualità di classe, diversi Paesi (ad es. Egitto, Tunisia, Bahrein) hanno visto accentuarsi il controllo indiretto degli USA con il conseguente restringersi degli spazi politici e un ritorno a pratiche autoritarie e repressive. In questo contesto gli USA hanno cercato di eliminare i possibili ostacoli ai propri progetti strategici nell’area. Dal  punto di vista del proletariato arabo questo si è trovato nella morsa delle ricadute drammatiche di devastazione e frammentazione prodotte dalle infinite guerre mediorientali partite dalla prima guerra d’Iraq in poi, dal tallone di ferro della repressione messo su dalle borghesie arabe. Si è così fortemente indebolita la possibilità di organizzarsi e la capacità conflittuale della classe operaia della regione, alimentando al contempo la diffusione dell’islam politico come forma del controllo sociale e falsa alternativa di riscatto del popolo  arabo. Questo quadro riguarda anche il vicino Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea, Somalia) — snodo del Mar Rosso— con traiettorie e modalità diverse a seconda dei contesti nazionali.

In questo generale riassetto, Israele è il punto fermo, l’elemento di controllo dell’intera regione: un gendarme regionale e un avamposto dell’imperialismo statunitense nell’area. In questo discorso non esiste più spazio per le istanze nazionali palestinesi all’interno dei confini israeliani. Queste vanno semplicemente rimosse e questo è il fine della guerra: cancellare il problema palestinese a assestare Israele come guardiano incontrastato.

Il punto di vista delle rivendicazioni nazionali.

Israele. La “Grande Israele”, concetto esplicitato sin dagli anni ’80 (documento Yinon Plan), prevede la frammentazione degli stati arabi confinanti. Su questa base di forza si vuole dare allo Stato israeliano una “profondità strategica” che in termini di territorio ora non ha e, soprattutto, porla come anello centrale in termini economici, finanziari, infrastrutturali e militari nell’area. Un garante in termini di sicurezza dei progetti dell’imperialismo occidentale, principalmente USA. In questa prospettiva  Israele, appoggiato dagli Stati Uniti, non mira più a gestire la questione palestinese, a contenerla o rinviarla: punta a cancellarla definitivamente. 

Il progetto politico della “Grande Israele” è la punta di diamante che si contrappone all’asse emergente sino-russo-nordcoreano (vedi parata del 3 settembre a Pechino), con l’avvicinamento dell’India e l’Iran – anche se ormai totalmente isolato a ovest dell’Eufrate – come proprio referente d’area. In questa visione, come già detto, non c’è più alcuno spazio per la questione nazionale palestinese. In Cisgiordania gli insediamenti proseguiranno fino all’esaurimento dell’entità statale araba mentre Gaza verrà trasformata in una riviera, con annesso sfruttamento dei ricchi giacimenti off-shore, e polo di riferimento dell’area per i settori ad alta tecnologia e finanziari.

Palestina. Un tempo la Palestina era il centro delle mobilitazioni di massa del mondo arabo. L’OLP, con la sua diaspora, aveva fatto della resistenza palestinese il nodo di riferimento politico e militare di quanti si opponevano ai piani statunitensi nella regione. Oggi la situazione è radicalmente mutata. Gli stati arabi del Golfo – Arabia Saudita, Emirati – considerano la normalizzazione dei rapporti con Israele come un passaggio inevitabile. Per essi, il problema palestinese è già, di fatto, “eliminato dall’agenda”. Ne è testimonianza il loro totale immobilismo. L’”Asse della resistenza” è stato totalmente disarticolato con un piano studiato a tavolino per anni. Il bombardamento dell’Iran di giugno 2025 ha chiarito al regime degli ayatollah che la loro influenza nell’area non è più tollerata. Hamas, che pensava di giocare una partita regionale, è stata invece travolta dalla dimensione globale della guerra, che questi stessi rapporti di forza intendeva mettere in discussione. Il “casus belli” del 7 ottobre, porta il suo marchio, in una guerra che molto probabilmente, viste le contraddizioni a monte, sarebbe ugualmente esplosa anche se in altre forme. Hamas si è assunta la responsabilità politica di aprire il conflitto, sia perchè pedina delle alleanze regionali, sia perchè come forza borghese è incapace di esprimere un progetto alternativo al proprio nazionalismo islamista. Si è insomma schierata in una battaglia di resistenza residuale combattuta al costo di atroci sofferenze per la popolazione araba di Israele, Gaza per prima.

Le due varianti della questione nazionale palestinese.

La prima è sintetizzata nella formula “due popoli, due stati”, processo che da Oslo in poi si è tradotto solo in nuove colonie, muri, bantustan. Nonostante le molteplici dichiarazioni dell’ONU in tal senso (l’ultima il 12 settembre 2025), si tratta nei fatti di un progetto che ha coperto la progressiva eliminazione di ogni spazio palestinese. Dimostrando nel tempo la sua totale illusorietà. Non a caso questa formula viene ancora fatta propria dalle forze demo-pacifiste a parole ma dalla parte della guerra nei fatti, come Fatah in Palestina o la CGIL in Italia, forze che a parole condannano la politica espansiva israeliana pur accettandola nei fatti, avallando il disegno della Grande Israele.

La seconda, più radicale, è compresa nello slogan per una “Grande Palestina dal fiume al mare”. Un progetto in apparenza più realista, ma nei fatti impossibile. La Grande Palestina presupporrebbe infatti la distruzione manu militari dello stato di Israele – evento che, per concretizzarsi, richiederebbe l’appoggio alla causa nazionale palestinese di ben altre potenze imperialiste rispetto all’Iran, già sconfitto in estate (guerra dei 12 giorni). In pratica per realizzarlo dovrebbero scendere in campo la Russia, se non la Cina stessa. Nessuno può escludere che in futuro questo possa accadere, ma in quel caso appoggiare un tale progetto significherebbe irreggimentarsi armi e bagagli su uno dei fronti della prossima Guerra Mondiale. In ogni caso questa visione vede l’intera popolazione Israeliana come nemica. Ma anche anche all’interno di Israele, della sua popolazione, si possono manifestare, e di fatto, seppur deboli, si manifestano, delle fratture che devono essere appoggiate nella prospettiva di mettere in discussione – per quanto difficile – almeno il Governo Netanyahu, non per mezzo di una guerra imperialista, ma sotto il peso delle sue contraddizioni interne.

In tutte queste versioni, come è evidente, la questione nazionale non porta a nessuna liberazione, è solo un passaggio politico necessario a schierare le popolazioni e l’opinione pubblica sui fronti della guerra. La conclusione logica di questi ragionamenti è lapidaria: la questione nazionale palestinese è oggi morta e sepolta, ciò che rimane viva è solo la sofferenza delle popolazioni di Gaza, della Cisgiordania e degli altri teatri di guerra nel Medio Oriente e nel mondo, popolazioni trasformate in carne da macello o in merce di scambio nei giochi imperialisti.

Se la questione nazionale è morta e chi la agita, consapevole o meno, si schiera per la guerra, allora è necessario un cambio di prospettiva.

Il significato della spedizione della Flottiglia.

La spedizione della Flottiglia ha avuto un merito, quello di tornare a porre al centro la guerra come questione umanitaria. Si tratta di un livello zero, pre-politico, il livello minimo dal quale ogni ragionamento sulla guerra deve partire. In ogni guerra, e la distruzione di Gaza è la massima espressione della barbarie della guerra oggi, i morti, i feriti, gli sfollati, gli affamati, gridano che il primo rifiuto deve essere quello del costo umano. 

I comunisti sono per la pace e per il pane. Questo è il livello minimo: la fine di ogni guerra e la garanzia di condizioni dignitose per ogni essere umano. È il primo livello al quale si deve e si può attestare il rifiuto della guerra. Ogni iniziativa che insista su questo piano va apertamente difesa e appoggiata, pur interpretando la rivendicazione della pace e del pane non come un punto di arrivo, ma come il punto di partenza dal quale iniziare a svolgere il proprio lavoro di denuncia, critica e organizzazione.

Denuncia

Sul terreno umano della pace e del pane si attestano molte forze che in realtà riproducono i meccanismi e le logiche che portano alla guerra e allo sfruttamento. La Flottiglia e le forze che la sostengono ne sono un esempio.

Molte delle forze politiche che la appoggiano, come parte del mondo cattolico e religioso, dei movimenti per i diritti civili e delle forze istituzionali di opposizione, declinano il proprio impegno verso la pia pretesa di limitare le ingiustizie nel mondo. Ma fermo restando il mantenimento dell’ordine costituito. Si dichiarano contrarie alle ingiustizie sociali e alle guerre ma, di fatto, non mettendolo in discussione, sostengono il sistema economico e sociale che le produce.

Su ogni nave della flottiglia sventola la bandiera palestinese, i loro slogan sono innanzitutto a favore della Palestina. Qui si gioca una grande ambiguità semantica. Una cosa è essere giustamente dalla parte della popolazione araba di Israele, di Gaza, della Cisgiordania, se vogliamo della popolazione palestinese. Un’altra è avallare l’illusorietà che il nazionalismo palestinese sia una risposta utile alla fine della guerra mentre, come abbiamo argomentato, non solo è un programma morto e sepolto ma è addirittura funzionale al proseguimento della guerra stessa e quindi delle sofferenze della popolazione palestinese. E in prospettiva allo schieramento sui fronti della guerra imperialista.

Il movimento del sindacalismo radicale, in Italia in particolare l’USB, ha dichiarato che “Se toccano la flottiglia bloccheremo con gli scioperi l’Europa intera”. L’istanza di per sé sarebbe condivisibile: solo gli scioperi, il movimento organizzato dei lavoratori e delle lavoratrici, possono obbligare la borghesia a fermarsi, mettendola in discussione come classe sociale dominante. Tuttavia non è questo il piano che pone il sindacalismo radicale. Innanzitutto gli scioperi vanno costruiti – e non semplicemente proclamati – luogo di lavoro per luogo di lavoro, assemblea per assemblea, costruendo comitati di sciopero, eccetera. Qui invece prevale lo sciopero di bandiera. USB che da tempo lavora su questi aspetti è prevalente. Non si pone minimamente neanche il problema dell’unificazione di tutto il mondo del sindacalismo di base. Il suo è un intento di egemonia che poco ha a che vedere con gli interessi dei lavoratori e la fine della guerra, molto con quelli della sigla sindacale e del progetto politico particolare che riflette. Secondariamente lo sciopero, il conflitto di classe, deve essere contro la guerra e per la difesa degli interessi dei lavoratori (almeno pane e pace, appunto), non legato strumentalmente a questa o quella impresa umanitaria, per quanto notevole.

Il movimento di massa che a vari livelli e in vari modi si è fatto carico di sostenere l’azione della flottiglia esprime pertanto: da un lato il peso che storicamente, e a maggior ragione oggi, ha sempre avuto la questione palestinese. Ma oggettivamente pone un problema che le varie forze interessate all’evento tendono ad aggirare: ovvero la questione generale della guerra, dell’atteggiamento verso la guerra imperialista di cui gli eventi in medio oriente sono parte inscindibile. Separare gli eventi di Gaza, le ragioni del genocidio e della dispersione dei palestinesi, dal loro significato reale, significa foraggiare una logica funzionale allo schieramento bellico, condotto dietro le parole di pace. Il problema è la guerra imperialista, in tutte le forme, i modi e i luoghi in cui si esprime. Per tutti i lavoratori e i proletari Gaza è l’avanguardia di questa guerra atroce.

Critica

Il piano sul quale deve attestarsi una efficace lavoro di critica e di opposizione alla guerra, pur partendo dalle elementari rivendicazioni di pace e pane, è quello che denuncia e combatte il sistema e il meccanismo stesso che genera la guerra: il capitalismo, l’imperialismo; che si oppone alla classe sociale che fa della guerra e dello sfruttamento la sua ragione di esistenza: la borghesia, i padroni, i capitalisti; che rifiuta l’espressione politica che assume lo schieramento delle forze nella logica della guerra: il militarismo, il nazionalismo.

Solo la lotta di classe può spezzare il ciclo di macello e dare una prospettiva di emancipazione comune ai proletari del Medio Oriente e dell’Occidente. Ma affinché questa lotta possa avere, quantomeno in un prossimo futuro, un esito positivo, è necessario che le forze di avanguardia si attestino fin da ora su questo piano critico.

La popolazione di Gaza e Cisgiordania è oggi un proletariato massacrato e ridotto alla fame, quelli che dovrebbero essere i loro più diretti alleati, i lavoratori e le lavoratrici dei paesi arabi e del Medio Oriente, sono frammentati e indeboliti dagli esiti dei progetti imperialisti, dalla disgregazione delle vecchie entità statali, dai cicli di guerra continua, dal diffondersi di ideologie religiose e politiche radicali e reazionarie, come l’islamismo, che vanno totalmente avversate.

Tuttavia la crisi avanza e con essa maturano nuove possibilità della sovversione dell’esistente, come dimostrato dalle recenti rivolte in Indonesia, in  Nepal o dagli scioperi in Francia.

Organizzazione

È a partire dalla chiara penetrazione di questi elementi politici all’interno del movimento reale che i comunisti devono avviare quei processi aggregativi ed organizzativi indispensabili a muovere le contraddizioni di domani verso lo sbocco anticapitalista.

Oggi l’urgenza è trasformare la solidarietà umanitaria e pacifista, i cortei contro la guerra di Gaza, in coscienza di classe, contrastando ogni ambiguità e nazionalismo. Se la storia ci insegna qualcosa, è che senza una forza comunista la rabbia resta prigioniera delle logiche dominanti, in questo caso intrappolata tra i due poli dell’islamismo come orizzonte regionale e dell’umanitarismo interclassista come risposta internazionale.

Contro la guerra imperialista

Per la pace e la fratellanza tra i lavoratori e proletari di tutti i paesi  

Per  la salvaguardia della vita e della dignità della  popolazione araba di Gaza e Cisgiordania

Per ricostruire una prospettiva di lotta comune tra i proletari del Medio Oriente e dell’Occidente 

Per fermare la guerra imperialista attraverso gli scioperi e il blocco della produzione

Per la soluzione anticapitalista

Solo così la questione della guerra contro i palestinesi, e non “della nazione palestinese”, diventerà un punto di rottura nello scenario mondiale.

Appendice – Cronologia minima dei fallimenti del progetto “Due popoli due stati”

Accordi e processi di pace falliti

  • 1978 – Accordi di Camp David: Egitto e Israele firmano la pace, ma la questione palestinese resta esclusa, ridotta a un problema amministrativo.
  • 1993 – Accordi di Oslo: riconoscimento reciproco tra Israele e OLP. Promessa di uno Stato palestinese mai realizzato. Israele accelera colonie e frammenta i territori in enclaves.
  • 2000 – Vertice di Camp David II: trattativa tra Arafat, Barak e Clinton. Nessun accordo: Israele propone bantustan discontinui; inizia la Seconda Intifada.
  • 2003 – Road Map per la pace: patrocinata da USA, UE, ONU e Russia. Risultato nullo: Israele continua a colonizzare, la Palestina resta divisa.
  • 2007 – Conferenza di Annapolis: nuova illusione diplomatica, nessun esito concreto.
  • 2020 – Accordi di Abramo: Emirati e Bahrein normalizzano i rapporti con Israele, seguiti da altri paesi arabi. La questione palestinese scompare dall’agenda regionale.


Una replica a “Contro la distruzione di Gaza, riflessioni intorno alla Global Sumud Flottiglia”

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