
Presentiamo una nostra lunga intervista ad un operaio, comunista, internazionalista e delegato sindacale di fabbrica USB . La sua è un’esperienza di fabbrica di lungo periodo che abbraccia un altresì lungo ciclo di ristrutturazione produttiva e di continua trasformazione della composizione operaia. Passaggi che hanno inciso 1) nel ruolo di forza lavoro della classe operaia, sottoposta ad un aumento progressivo delle forme e delle tecniche di sfruttamento; 2) nella coscienza da parte operaia del proprio ruolo di classe e nella capacità di praticare i propri interessi autonomi. Su questo piano si è verificato un evidente arretramento. Fino alla attuale posizione di estrema difensiva di fronte alla sempre crescente offensiva padronale.
Si tratta di una serie di condizioni oggettive e soggettive con le quali la figura dell’ “operaio comunista” ha dovuto fare i conti in tutta la fase storica che arriva fino ad oggi. Una situazione che da, di conseguenza , il polso della natura delle difficoltà che i compagni incontrano nella presenza in fabbrica sia come avanguardie di lotta che come avanguardie politica. A maggior ragione nel momento in cui irrompono politiche riconducibili ad una vera e propria economia di guerra, riflesso del materializzarsi sempre più evidente della stessa prospettiva della guerra imperialista, anche nei paesi del centro, con ricadute drammatiche nella vita di proletari e operai.
Tutto ciò sta determinando uno spartiacque rispetto allo ieri e ci fa entrare in una situazione nuova, ponendo nuovi e più difficili compiti all’avanguardia.
Per questo nel parlare della classe operaia, siamo voluti questa volta partire dall’aspetto soggettivo che riguarda la condizione e la posizione della sua avanguardia. E pur nei limiti che ogni singola esperienza ha – detto per inciso non concordiamo su molte delle affermazioni sull’utilità politica di stare nel sindacato -, ci è servito per mettere in primo piano questioni e nodi stringenti che emergono in tutta la loro problematicità e contraddittorietà e che si manifestano sul piano della pratica reale. E nello stesso tempo, attraverso le parole del compagno, emerge anche come vede e affronta i vari problemi questo spezzone di classe operaia.
Sono molte e differenziate le realtà che nel tempo hanno praticato il loro intervento nella lotta di classe. Al di là delle soluzioni adottate e della diversità di impostazioni che hanno dato ai problemi (questione sindacale e dell’intervento), si sono tutte confrontate con terreni e problemi comuni. Hanno sviluppato il loro intervento su di un terreno accidentato, le cui condizioni sono state continuamente stravolte e imposte dal nemico di classe.
Per questo cogliere gli aspetti sostanziali di questa intervista rimanda al giusto criterio di relazione ed inquadramento della condizione e dei problemi di fondo con cui la pratica si confronta. Per quanto riguarda noi, non cerchiamo facili soluzioni e non le abbiamo. Ma riteniamo sempre, e in tal senso lavoriamo, che il passaggio fondamentale per i comunisti internazionalisti starà nella capacità di operare quel salto verso l’essere una forza reale che sappia far pesare la propria proposta nel vivo della lotta di classe, vero punto discriminante che dà peso e qualifica all’intervento dell’avanguardia. Al centro dell’intervento stanno e devono stare, infatti, sempre, i tanti aspetti che rimandano al problema centrale: quello della possibilità della costruzione di una posizione politica dell’autonomia di classe e della strutturazione al suo interno di una soggettività rivoluzionaria internazionalista. Questi aspetti sono tanto più importanti in questa fase storica di crisi estrema e di progressivo maturare della tendenza alla guerra generalizzata fra potenze imperialiste.
Interlab – Innanzitutto un caro saluto. E cominciando subito, la prima domanda che ti vogliamo fare è inerente al ruolo di questa figura mitica dell’ “operaio comunista” e come oggi si viene a collocare nella condizione operaia, di fronte ai grandi problemi del presente che sono quelli della crisi e della guerra.
Un tempo l’iniziativa operaia delle avanguardie aveva un rapporto stretto fra il piano delle rivendicazioni e la prospettiva di alternativa generale. Man mano, con l’arretramento di classe, questo rapporto si è andato a perdere. Fino ad attestarsi su un’estrema linea di resistenza di carattere esclusivamente “sindacale”, e spesso neanche quello.
Eppure questa è una contraddizione oggi come non mai, grandissima. Con la crisi del capitalismo che raggiunge sempre nuovi apici e con le guerre che macinano in ogni dove e tendono sempre più chiaramente verso un conflitto generalizzato.
Nell’intervento comunista nei luoghi di lavoro questo rapporto fra la rivendicazione/lotta di difesa particolare e la prospettiva generale deve essere, come dire, ricollocato, ricomposto.
Come si colloca l’operaio comunista rispetto ai grandi problemi storici e politici che ha davanti, in rapporto alla concreta condizione operaia che vive?
Paolo – La domanda è complessa ma chiara. Sono ormai 27 anni che sono in fabbrica. Dal 1998. Ho visto un bel po’ di evoluzioni, in pratica una continua perdita di diritti.
Un primo punto che tengo a sottolineare è come , in quest’ultimo anno o due, quello che sto sottolineando molto nei miei interventi tra gli operai e nelle assemblee è un diverso approccio: spesso in fabbrica noi compagni puntiamo il dito contro i sindacati, i sindacati confederali soprattutto, perché hanno tradito la classe operaia, perché si sono mangiati la condizione operaia. No? Quello che si sono mangiati lo sappiamo tutti: articolo 18, precarietà, licenziamenti liberi, sicurezza sul lavoro e tutto il resto. Il fatto è che adesso, di fronte a questa situazione, per colpire la coscienza degli operai, negli interventi, uso appunto un altro metodo. Non dico più che la colpa è dei sindacati – questo è scontato – ma sottolineo che la colpa è la nostra. Siamo noi operai che permettiamo ai sindacati di fare tutto quello che vogliono. I sindacati sono 30 anni che ci mangiano i diritti e noi lavoratori, noi operai, li facciamo fare. Questo è il punto centrale sul quale insistere, secondo me.
I sindacati possono entrare ancora nelle assemblee di fabbrica, fare le proprie assemblee, presentare le piattaforme dei contratti, entrare fisicamente nei luoghi di lavoro solo perché gli operai, nelle assemblee di fabbrica, li lasciano parlare. Li lasciano dire quello che vogliono e nessuno oltre a elementi come me li contrastano.
Questo succede perché gli operai non hanno fiducia nella propria forza. Ogni operaio ormai si è convinto di non essere capace a contrastare i sindacati. È rassegnato, disilluso e, comunque, incazzato, però non riesce a intervenire contro i sindacati per dire quello che bisogna dire, per contrastarli.
I sindacati fanno il loro mestiere e cioè fanno i sindacalisti e quindi magari c’è un sindacalista più sincero che può portare avanti la minima difesa economica. Però comunque, noi lo sappiamo come sono fatti i sindacati. Non è solo una questione che il sindacato non è rivoluzionario perché si colloca in mezzo tra il capitalismo e la classe operaia. Il sindacato non è solo un organo di mediazione – parliamo soprattutto dei confederali – ma dobbiamo parlare di veri e propri complici dei padroni: negli anni hanno fatto in modo che la classe operaia venisse sfruttata sempre di più. Questo è il loro ruolo.
Tutto ciò l’ho visto bene nell’arco dei miei 30 anni in fabbrica, con la passiva responsabilità degli operai. I lavoratori non sono stati in grado di prenderli a calci nel culo a questi sindacati.
Allora è inutile in questo andazzo delle cose che poi un compagno in assemblea dica: “sindacati venduti, sindacati collusi, sindacati di merda, vi siete mangiati i diritti degli operai”. Si, lo hanno fatto e noi sappiamo perché, cioè che sono davvero collusi, che sono un organo del padrone. Però in questi 30 anni gli operai non hanno fatto quasi niente per rompere la situazione. Certo i sindacati hanno svolto il loro ruolo perché infatti sono i pompieri delle lotte. Lo abbiamo visto nelle poche mobilitazioni operaie di questi anni. I sindacati cercano sempre di affossare la lotta, se poi non ci riescono gli devono correre appresso, perché se no gli operai alla fine li mandano a quel paese, ma appena possono la addormentano con i loro tatticismi e le loro chiacchiere. Ma ci tengo a dire che la responsabilità è proprio dell’”incoscienza di classe” che, purtroppo, per una serie di motivi, anche nelle nuove generazioni non si riesce a contrastare.
Questo secondo me è uno dei problemi fondamentali.
Un secondo punto che tengo a mettere in evidenza è che io, come operaio, cerco di usare tutti i mezzi possibili per poter partecipare e per poter intervenire. Da questo punto di vista ho fatto molte esperienze.
24 anni fa mi sono iscritto alla Fiom e ho fatto per 2 anni il delegato Fiom. Poi ho fatto il delegato Sicobas, ma per il contratto nazionale e per il testo unico del 2014 che di fatto ha escluso questo sindacato non potevo più candidarmi nell’RSU con loro. Così mi sono fatto 6-7 anni di operaio semplice, senza svolgere attività sindacale. Ma l’anno scorso nella nostra fabbrica il sindacato non non c’era più perché non c’era più nessuno in condizione di poter fare il delegato sindacale, qualcuno che avesse qualche esperienza sindacale alle spalle.
Alla fine gli operai hanno chiesto a me di farlo, e mi ha votato mezza fabbrica.
Oggi sono iscritto nell’USB e sono un loro delegato sindacale. In questo modo ho più spazio per la mia attività, mi permette di avere uno spazio di intervento che da operaio semplice non avevo. Allora mi limitavo a fare gli interventi in assemblea di fabbrica, fine. Invece, facendo il delegato sindacale USB, non solo ho lo spazio per intervenire nella mia fabbrica, ma ho uno spazio di intervento addirittura regionale, provinciale e addirittura anche nazionale, cioè ho fatto anche dei coordinamenti con gli operai a livello nazionale. Ci siamo incontrati a Napoli, ci siamo incontrati a Roma. Per me questo qua è un grande spazio di intervento. Quindi l’USB non è il sindacato che a me piace, ma l’USB è quello che comunque mi dà il mezzo per poter partecipare, per poter intervenire.
Qua arriviamo al un terzo punto che per me è molto importante. Secondo me i compagni devono usare anche i mezzi che la borghesia ci dà in mano. Si tratta di mezzi che si devono usare nel miglior modo possibile. Poi dopo, è ovvio, che se io devo andare contro l’USB, perché l’USB effettivamente non lotta contro la precarietà, io vado anche contro l’USB, anche se sono iscritto all’USB, anche se magari mi ritrovo in qualche manifestazione che sono con le bandiere del USB. Però secondo me ognuno di noi, nella propria categoria, deve partecipare. Altrimenti finisci per tagliare i legami con la classe e un comunista non può vivere fuori dalla classe, attaccato unicamente alla coerenza del suo ideale.
Faccio il mio esempio per quella che è la mia storia di operaio e in base alla mia militanza politica. In base a questo io dovrei, con molta coerenza, dire: “No ai sindacati. Lotte fuori e contro ogni sindacato. Lotta di classe. Gruppi di fabbrica internazionalisti”. Dovrei dire così. Ma se dico così io resto da solo, magari mi faccio un compagno, me ne faccio due e rimango lì ad aspettare l’assemblea di fabbrica, ad aspettare di partecipare a qualche assemblea del territorio, ma niente di più.
L’ho già fatta questa esperienza ed è durata parecchi anni. Adesso invece, come delegato, alla fine almeno la mia fabbrica riesco a smuoverla. Quando sono divenuto delegato sindacale, conoscendomi già tutti, i miei padroni hanno tremato. Hanno pensato “Cazzo, adesso c’è lui come delegato sindacale”.
Questo è il quarto aspetto che per me è molto importante: esistono dei compagni bravi? compagni bravi nel proprio posto di lavoro? Allora ognuno di loro deve partire dal proprio posto di lavoro e sul proprio posto di lavoro deve dare del suo meglio perché, sennò, se non parti dal tuo posto di lavoro, non puoi fare un intervento su un’altra categoria. Devi partire dalla tua categoria, fare il tuo lavoro politico nella tua categoria, dove stai tu. È come dire che il mondo si cambia perché ognuno di noi fa il proprio dovere nel suo piccolo. Il nostro dovere parte dal luogo in cui lavoriamo. Ognuno di noi deve partire da lì e usare ogni mezzo – anche borghese – ma per rompere i coglioni. Per farsi cacciare fuori. Per contrastarli. Per sputtanarli. Per usarli, ma rimanendo sempre e comunque anticapitalista.
E questo è un altro punto imprescindibile. Per spiegarmi cosa intendo: ora l’USB ha come slogan principale “Abbassiamo le armi e alziamo i salari”. Se leggete tutti i comunicati dell’USB si parla di salari, come se tutti i lavoratori avessero un contratto a tempo indeterminato, come se fossero tutti garantiti per i quali l’unico problema è il salario. Invece il salario è solo uno dei problemi dei lavoratori. Il problema essenziale per la classe operaia e per i lavoratori in genere è il ricatto della precarietà. Ricatto che si connette direttamente con la sicurezza sul lavoro, perché un lavoratore precario è automaticamente ricattato sul lavoro e sulla sicurezza. Quindi se sei precario devi lavorare come dice il padrone e non puoi opporti. In merito ai problemi della sicurezza sul lavoro tanti morti sono il prodotto del lavoro nero e della precarietà, del ricatto del posto di lavoro.
Questi aspetti sono tutti connessi fra di loro. Perché allora si parla di salari quando il salario è solo “il terzo problema degli operai”? Il primo problema è l’occupazione, avere il diritto, la possibilità, la dignità sul proprio posto di lavoro. Sia per quanto riguarda la garanzia del lavoro, sia per quanto riguarda la possibilità di potersi difendere e di non essere ricattati. Poi viene il problema della sicurezza. Dopo il salario
Che cosa vuol dire “Abbassare le armi”? Sappiamo benissimo che ogni nazione si deve armare. Per forza. Finché viviamo nel capitalismo tutte le nazioni si devono armare perché tutte le nazioni devono avere una potenza militare. È ovvia questa cosa qua. Cosa abbassiamo? Cosa facciamo? Gli hippy?? Facciamo i pacifisti?? Non dovremmo dire “Abbassiamo le armi, alziamo i salari” ma “abbattiamo il capitalismo”. Perché il capitalismo è solo guerra e ogni nazione si deve armare finché c’è il capitalismo. Quando il capitalismo mostra le la sua faccia più brutta, come in questo momento, dove c’è guerra e si ammazzano i bambini e le donne, come nella Striscia di Gaza dove al gente muore di fame, o in Ucraina, non si può parlare ancora di “Abbassare le armi” senza dire invece che bisogna abbattere il capitalismo. Si pensa davvero che nel capitalismo si possano abbassare le armi?? È uno slogan e ha un significato chiaro, perché chi li fa questi slogan li calcola bene.
Io non mi ci rivedo proprio nell’USB, sia negli slogan che fa che nei comunicati che tira fuori spesso. Sicuramente è un sindacato più radicale (magari meno del Sicobas), fa parte della parte radicale che contrasta la Fiom, che contrasta la CGIL, che contrasta i confederali. Io da qualche parte devo stare, per poter avere lo spazio di intervento, e sto con l’USB. Poi non lo so, io quello a cui tengo a dire è questo. Alla fine comunque io in fabbrica mi muovo bene, mi hanno votato 100 operai e ho fatto 35 iscritti a USB su 230 operai. Vengo riconosciuto da tutti. Anche sul territorio. Mi danno lo spazio di intervento, sia nell’USB che in altre assemblee. Io sia come singolo operaio, ma anche come gruppo operaio (l’USB ha eletto tre delegati su sette nella RSU) vengo riconosciuto dagli altri operai per il mio ruolo rispetto ai delegati della FIM Cisl e rispetto ai delegati della Fiom. Insomma, quello che posso fare tento di farlo e anche dalla mia posizione non mi stanco mai di dire che viviamo in un sistema capitalista che va abbattuto, perché non ha nessuna logica tranne quella del profitto. Questo io lo dico quando è giusto dirlo, appena si può dire in modo tale da non essere, come dire, indicato come il comunistaccio rivoluzionario che è utopico, che pensa di fare la rivoluzione domani.
Lo devi dire nel momento giusto in cui si può dire e io trovo tanti momenti in cui lo posso dire. Se devo parlare solo di salari, parlo solo di salari. Se devo parlare solo di sicurezza sul lavoro, parlo solo di sicurezza sul lavoro. Però io sono riuscito a parlare anche di guerra nell’assemblea di fabbrica, soprattutto in questo periodo. Comunque lo sciopero, uno sciopero contro la guerra, è stato fatto e io sono riuscito a parlare anche di questo in fabbrica, cosa che non potevo fare se ero un singolo operaio che poteva fare solo quel singolo intervento di 10 minuti.
Interlab – Diciamo chiaramente che sulla “ questione sindacale” la vediamo diversamente, però per questo vorremmo ancora sottolineare il problema del rapporto fra il comunista internazionalista e l’operaio. Hai parlato di una serie di linee di intervento che ricalcano le tematiche centrali di questo periodo, la questione dei salari come va realmente impostata e cioè non sganciata da tutti gli altri problemi che vive la classe lavoratrice e la questione della guerra. La domanda è, quale riscontro hanno avuto da un punto di vista operaio questo tipo, diciamo, di temi che pure oggi vanno a gravare sostanzialmente sulla condizione operaia? Parlare di guerra può apparire una cosa lontana, perché la guerra, appare lontana, come una cosa che non ci riguarda. In realtà vediamo che ci sta riguardando sempre più da vicino in tantissimi modi. Quindi, dal tuo riscontro, qual è l’attenzione operaia verso questo tipo di tematica al di là delle scadenze dello sciopero e via discorrendo? Cioè si dibatte, non si dibatte, in che termini?
La seconda domanda è questa: sì, è vero quello che dici che all’interno di un posto di lavoro ti confronti con i problemi che emergono dalla ristrutturazione del padrone, che poi lo sappiamo, dietro il padrone c’è lo Stato.. È da quel terreno lì che si può anche lavorare per far fare a dei compagni un saltino in avanti, anche come coscienza politica. Il problema che abbiamo visto spesso, parlando di lavoratori attivi, è che magari costruisci dei buoni quadri che sanno lavorare benissimo sul terreno sindacale, però tendi alla fine a riprodurre esclusivamente militanti sindacali, bravissime avanguardie di lotta per carità, e la storia del movimento operaio è piena di questo tipo di militanti di base, ma non militanti comunisti. Per noi il problema fondamentale, oggi, è che abbiamo bisogno di militanti d’avanguardia, militanti politici, militanti internazionalisti. Questo è anche il ruolo dell’operaio comunista che, in un certo senso, deve recuperare pure questo aspetto che con il tempo si è perso. Come pensi che questa questione, per noi di importanza strategica, si ponga nella pratica?
Paolo – Allora con ordine. Per quanto riguarda la guerra, io ho trovato molto spazio sul fatto che è proprio lì che il capitalismo ci mostra la sua faccia peggiore. Sul fatto che non esiste un capitalismo buono, un capitalismo che ci può dare dei diritti, un capitalismo che ci può alzare il salario, un capitalismo che tutto sommato può rispettare l’ambiente.
Nel momento in cui dico in assemblea che ci sono mucchi di bambini morti, donne uccise, case distrutte, famiglie non sanno più dove andare. Allora arrivano a pensare “cazzo, è questa la società in cui viviamo”. È il capitalismo, il capitalismo che è fatto per distruggere e per creare guerra, perché solo così si possono produrre armi, per ravvivare l’economia, per riprendersi dalla crisi. La questione delle guerre è un’occasione di parlare proprio di capitalismo e di anticapitalismo. Un’occasione che ho avuto tante volte anche in fabbrica. Purtroppo siamo molto indietro. Per quanto un mio collega possa capire che viviamo in una società in cui comunque comandano i profitti e l’economia – perché il capitalismo è questo – da qui ad arrivare a quello che magari io vorrei nella pratica e cioè ad organizzarsi sul cosa si può fare per fermare una guerra, ce ne vuole. Perché poi è questo che gli operai ci chiedono. Come affrontare la cosa concretamente? Ho avuto la possibilità di dire che l’unico modo per fermare le guerre è uno sciopero internazionale a oltranza. La guerra si blocca bloccando l’economia. Ma sappiamo bene che è una cosa che oggi non si può praticare realmente. Allo stato non siamo capaci di organizzare uno sciopero internazionale contro la guerra, non semplicemente uno sciopero di 8 ore, ma uno sciopero ad oltranza contro le guerre, per fermarle. Non siamo capaci di farlo e quindi possiamo solo denunciare il sistema in cui viviamo e riusciamo a fare iniziative limitate.
Però mentre denunciamo il capitalismo comunque dobbiamo dire che un modo per fermare la guerra ci sarebbe e il modo per fermare la guerra sarebbe quello sciopero ad oltranza. Purtroppo oggi, nel 2025, non abbiamo quel livello di coscienza di classe e quella forza di cui vi dicevo, ma si va avanti.
Invece per quanto riguarda la domanda sulla questione di formare compagni internazionalisti o compagni che al di là del loro lavoro nel sindacato possono creare veramente un nucleo rivoluzionario internazionalista, quello è sempre stato il mio sogno. Io oggi sono contento di partecipare a questa riunione perché comunque penso che ci sono compagni internazionalisti che conosco da tanto tempo, con i quali sono cresciuto politicamente e che mi hanno insegnato tanto e sono contento di esserci. Sarei contento anche di portare un’altra persona in questo incontro. Però è difficile. Anche se ho visto più partecipazione. C’è un po’ più di interesse, ma poi bisogna entrare anche nella pratica. Io sono delegato USB, ho i miei due colleghi delegati USB. Ci sono giovani ragazzi che alla fine partecipano agli scioperi, vengono giù col pullman insieme a noi, vogliono partecipare e sono contenti. Alcuni sono molto contenti di partecipare praticamente anche alle manifestazioni, negli scioperi e questa è una cosa bella, tra l’altro anche giovani, è una cosa bella che mi seguono.
Adesso queste persone qua non è che posso già invitarle in una riunione di internazionalisti, però ci sono dei buoni propositi. Il mondo va abbastanza male e avere nella mia fabbrica già solo alcuni colleghi è tanto. Poi, voi compagni lo sapete, io 15 anni fa sono stato anche con un solo compagno e abbiamo organizzato belle lotte, come lo sciopero autorganizzato, perché poi dopo di compagni ne bastano due o tre, se le condizioni sono giuste, per rivoluzionare 200 operai.
Però compagni veri, non compagni di collaborazione sindacale, ma compagni rivoluzionari internazionalisti. Ci proviamo e riproviamo. È quello che si dice sempre. Sì, facciamo lotta economica, facciamo lotta sindacale, però in tutto questo non ci dimentichiamo che viviamo in un sistema capitalista che va abbattuto e non dobbiamo mai perdere occasione di dirlo. E di cercare di organizzare politicamente questi compagni più coscienti che ogni tanto saltano fuori.
Interlab – Siamo sempre sulla stessa falsariga del rapporto fra il lavoro economico/sindacale e la necessità della costruzione di una prospettiva politica.
Hai parlato in maniera approfondita del tuo posto di lavoro di fabbrica e di come cerchi di introdurre nelle questioni quotidiane anche il discorso più ampio dell’anticapitalismo.
Uno dei grandi problemi che accompagna questa lunga fase di arretramento della lotta di classe è proprio quello del rinchiudersi all’interno della propria dimensione di fabbrica o, più in generale, di posto di lavoro. Tu hai anche detto che delle volte hai avuto la possibilità di fare delle proiezioni sul territorio. Potresti spiegare meglio cosa intendevi?
Paolo – Il tema dell’uscire dalla fabbrica è uno dei grandi problemi che le avanguardie operaie si sono sempre poste. Precisiamo che lo spazio che oggi ho sul territorio è grazie al sindacato. Faccio un esempio pratico. Io sono un RLS (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza). L’USB mi ha inserito in un gruppo di RLS a livello nazionale. In questo modo riesco ad avere a che fare, parlare di sicurezza, con operai di tutta Italia, iscritti a USB. Poi facciamo delle riunioni trimestrali con gli operai di tutte le fabbriche della mia regione. Ecco. Si fa la riunione, poi negli intervalli ci si parla, ci si conosce…
In queste assemblee sono emerse discussioni molto interessanti, con posizioni molto variegate: operai riformisti, operai addirittura di destra, operai incoscienti e operai coscienti, Ci ritroviamo tutti insieme a confrontarci ed è uno spazio molto importante da utilizzare per far crescere la coscienza di classe degli operai. È questo il lavoro che riesco a fare a livello di territorio. Poi ovvio che dove vivo ci sono altre formazioni politiche. C’è “Potere al popolo” che mi conosce e ai presidi e alle iniziative non manco mai, così come nei cortei. Spesso e volentieri mi riconoscono e mi lasciano anche il microfono per fare gli interventi. Ma questo può essere sia con “Potere al popolo”, può essere USB e addirittura può essere anche il SiCobas.
Dopo 27 anni sono una persona riconosciuta nel territorio. Mi conoscono come il compagno operaio che ha sempre lottato con coerenza, che si è fatto sbattere fuori dalla Fiom, che è uscito fuori dal Sicobas pacificamente, che è entrato nell’USB perché era l’unico modo per entrare nell RSU. È importante essere riconosciuti in questo modo sul territorio. Credo che la coerenza paghi e io sono riconosciuto come il compagno che non si è mai pentito delle sue scelte, come un compagno che si è sempre comportato in maniera corretta.
Interlab – Come oggi si pone e vedi il problema della cosiddetta “unità operaia” ,che per noi è innanzitutto il concetto politico della unità del proletariato tutto sui suoi interessi generali, tenendo anche conto di quanto avvenuto: si è approfondita con l’avanzare delle ristrutturazioni e delle forme corrispondenti di vendita e sfruttamento delle braccia operaie, una divisione strutturale per categorie, per precarietà, per 1000 e una condizioni e contraddizioni che spesso, costituiscono la base materiale delle divisioni negli operai e nei proletari, e nel suo riflesso soggettivo e politico, fra una cosiddetta sinistra operaia e proletaria pur oggi ridotta al lumicino e quella maggioritaria che subisce e si adegua allo stato di cose presente, cercando, diciamo, di resistere con gli strumenti che si hanno a disposizione. Vista la divisione per categorie, per condizioni di lavoro, per sindacati anche, no?! come viene affrontata sostanzialmente questo problema, perché a nostro avviso anche in questo caso ciò richiederebbe una visione, come dire, un po’ più complessiva che esce da quella che è la dimensione stretta stretta dell’operaio all’interno della sua dimensione lavorativa. Cioè come vedi il problema di un punto di raccordo e dove si colloca questo punto di raccordo per il gli operai, ma anche il proletariato tutto e su quali punti: esiste questo dibattito e se sì, in che termini?
Paolo – Ah, sì, rispetto a questo problema tra noi metalmeccanici è uscita anche la polemica. Polemica derivata dal fatto che ad esempio Stellantis che sono metalmeccanici come noi è divisa dal resto della categoria. Ci hanno diviso, quindi c’è l’automotive e ci sono i metalmeccanici. Quindi hanno diviso anche i metalmeccanici, quindi non solo la classe operaia è divisa in 800 milioni di categorie tra chimici, autotrasportatori, industria metalmeccanica e poi mettiamoci anche tutte le altre categorie. Non siamo solo già divisi così, di suo, ma tentano ancora di dividerci ulteriormente perché dividere l’automotive dal settore. C’è stato uno sciopero quest’anno, lo sciopero dell’automotive, cioè c’erano dei metalmeccanici che scioperavano e dei metalmeccanici che non scioperavano E questa cosa qui è stata oggetto di discussione in fabbrica, cioè l’abbiamo detto, siamo tutti lavoratori, che dovremmo essere tutti, tutti in una categoria, che quando si sciopera dovremmo scioperare tutti insieme che la classe operaia è una sola. Questo purtroppo è stato uno dei brutti e sporchi lavori che sindacati e tutto il resto hanno fatto, si sono divisi i lavoratori per dividerci tutti. Cioè io insieme agli operai metterei anche gli insegnanti, metterei anche gli impiegati, cioè il pubblico impiego. Aggiungo questo perché non sono mai stato un operaista. Cioè penso che comunque sì, è vero, noi operai lavoriamo in catena e produciamo ricchezza, però se ci deve essere uno sciopero generale, lo sciopero generale deve essere lo sciopero generale di tutti, anche degli infermieri, di tutti deve essere lo sciopero generale. Non può esserci uno sciopero che è sempre diviso in categorie e questo non mi fermerò mai di dirlo perché comunque la classe opera non è metalmeccanica o chimica, la classe operaia è classe operaia e basta, cioè non si dovrebbe dividere, però anche lì è una è una lotta dura per affermare questa cosa. Ogni tanto esce fuori ultimamente il fatto di fare degli scioperi generali in cui si mettono insieme i sindacati di base che mettono insieme un po’ di categorie. È capitato, però siamo molto lontani dal fatto di scioperare tutti insieme visto che le forme di lotta unitarie sono sempre tramite lo sciopero che poi dopo alla fine la classe si unisce.
Interlab – Citavi Stellantis, che non fa parte del contratto dei metalmeccanici perché ad un certo punto i dirigenti della stessa si rifiutarono di firmarlo, uscirono dal contratto nazionale dei metalmeccanici e nè imposero uno loro. Però come vedi questo rimanda al discorso della contrattazione e alle sue condizioni. Un delegato sindacale è un delegato che, alla fine, va a mettere la firma sul contratto aziendale. Attraverso la contrattazione i contenuti del contratto vengono migliorati, ma non sarà mai il “contratto ideale”. Quindi come delegato ti assumi la responsabilità di porre la tua firma su questo contratto che, comunque, ribadisce le condizioni, i criteri, la struttura, il quadro all’interno del quale avviene lo sfruttamento in fabbrica. Per un comunista, come inquadri questo problema? Da un lato uno potrebbe dire “No, io non firmo il contratto, non firmo nessun contratto” e qui starebbe un discorso di coerenza dall’altro però un delegato che non firma mai crediamo che sia messa in discussione la sua credibilità nella stessa figura di delegato che ha assunto.
Paolo – Per quanto riguarda firmare accordi o non firmarli, a volte mi sono trovato in difficoltà. faccio un esempio pratico, quello degli accordi sulla cassa integrazione. Per dire, noi abbiamo fatto 13 settimane di cassa integrazione e fino al 9 giugno eravamo in cassa integrazione e c’era ogni volta da firmare. 13 settimane di cassa integrazione. Una cosa che non è stata mai fatta nello stabilimento dove lavoro adesso. Allora ho chiesto l’integrazione alla cassa integrazione. Io sono stato l’unico e ho imposto a tutti gli altri delegati sindacali, anche quelli della FIM-Cisl e della Fiom, di dire: “Adesso noi chiediamo l’integrazione alla cassa integrazione perché noi dobbiamo difendere il salario, perché noi lavoriamo per il salario.” Ritornando a quello che dicevo prima, il salario non è che non è un problema, il salario è un problema, ma non è il primo. Però noi lavoriamo per il salario, quindi chiediamo l’integrazione e senza integrazione, non firmiamo l’accordo sulla cassa integrazione. L’ho posta così e devo purtroppo dire che non ce l’ho fatta. La mia proposta non è passata. Non è passata non solo perché gli altri delegati dubitavano ed erano, diciamo, non convinti. Ma c’era anche un altro fattore fondamentale: di solito io mi muovo anche in base alla “capacità di potenza dal basso”. Nel mio ruolo di delegato sindacale devo capire e sentire l’umore operaio per far pesare il mio intervento. Se gli operai sono forti e uniti per l’integrazione alla cassa integrazione, allora io vado avanti come un treno. Ma se vedo che c’è del dubbio, delle cose che comunque non riesco a portare avanti, allora devo considerare di fermarmi, perché io senza gli operai dietro non sono nessuno.
Se ci sono degli operai dietro, vai avanti sulla strada decisa: noi operai vogliamo così, sennò non firmiamo la cassa integrazione perché vogliamo l’integrazione assolutamente. Allora io vado lì e dico non lo firmo. Però se il 90% della fabbrica pensa che è giusto firmare perché sennò non ci anticipano la cassa integrazione e se non firmi, addirittura vieni additato perché hai rischiato di non far anticipare la cassa integrazione dal padrone, perché l’INPS te la dà 3 mesi dopo, allora a quel punto lì sei costretto a malincuore a firmare perché dici “Vabbè, tanto la vedono come una normalità e quindi non è una cosa che devo proprio cambiare.”
Questo è un punto, però sempre per rispondere alla vostra domanda, vi faccio un altro esempio, sempre relativo alla cassa integrazione. Tra le fila operaie, per quello che ho visto, ormai sembra per così dire che ci sia una sorta di assuefazione, cioè quasi una consuetudine: si firmano le casse integrazioni perché i padroni le usano per fare – come cerco di spiegare – “una riduzione di orario a parità di salario”, ma per loro, non per gli operai!! Cioè loro usano i soldi dell’INPS, ci pagano meno a noi, riducono l’orario e loro riescono comunque a fare i profitti. Attingendo all’INPS per la pagare la cassa di fatto utilizzano i nostri soldi. Non tutti gli operai sono coscienti di questo meccanismo perverso. Gli operai aspettano solo che il padrone gli anticipi la cassa integrazione, poi se c’è integrazione è bene, se non c’è l’integrazione va bene lo stesso. In ogni caso, nonostante tutto, comunque ho rotto i coglioni sull’integrazione, coinvolgendo tutti gli altri sei delegati. Tant’è che poi alla fine siamo riusciti anche ad ottenere un premio di risultato più che doppio rispetto a quello che ci volevano dare, ribadendo di nuovo l’integrazione sulla cassa integrazione. Questo è un esempio di firma di un accordo che lo firmi a malincuore. In sintesi, come ho sperimentato nella mia situazione di fabbrica il punto centrale era quello dell’atteggiamento degli operai riguardo questa cosa. Una sua accettazione sostanziale, e la lotta contro la stessa si è ridotta ad aspetti marginali di integrazione salariale .
Facendo un’altro esempio, adesso abbiamo presentato la piattaforma del secondo livello di contrattazione che è il contratto aziendale. Lo firmeremo questo contratto aziendale, ma in questa contrattazione posso essere, anzi sono, abbastanza intransigente. Il contratto aziendale del 2025, che poi sarà del 2026, per me non deve essere assolutamente peggiorativo in nessun punto rispetto al contratto aziendale del 2023 e del 2022, perché se solo un punto è peggiorativo rispetto al contratto aziendale del 2022, io non lo firmo. Io non ho firmato nel passato, io non ho firmato neanche gli accordi di ristrutturazione che loro chiamano di “riorganizzazione aziendale.” Siamo andati in Regione, alla fine sono usciti degli accordi ma che io non ho firmato. Certo, sono accordi importanti, ma sono accordi che io comunque non firmo, anche se ho solo un terzo degli operai che mi dice di non firmare e due terzi che dicono il contrario di firmare. Io non lo firmo lo stesso, perché contengono cose che vanno proprio contro noi operai e peggiorano la situazione degli operai. In quel caso ci hanno chiuso lo stabilimento dove prima lavoravo per delocalizzare in Turchia e hanno fatto i loro magheggi, con l’appoggio della Regione e della Fiom. Io non ho firmato nessuno di quegli accordi, nessuno. Perché gli accordi si firmano se sono sì, magari un po’ riformisti, un po’ così, ma devono andare a migliorare almeno un po’ la situazione. Se devono peggiorarla o se devono prendere in giro la classe operaia, io non firmo e non me ne frega un niente se il mio funzionario dice “No, no, firmalo”. No, io non lo firmo. Non lo firmo neanche se i due terzi della fabbrica mi dicono di firmarlo, perché se una situazione è veramente contro la classe operaia io non la firmo. Quindi adesso, per il contratto aziendale, io sono messo così. Adesso non c’è delocalizzazione, non c’è riorganizzazione aziendale, non c’è cassa integrazione, non c’è licenziamento. Se c’erano queste cose io non avrei firmato, però se il contratto aziendale non è peggiorativo, posso anche firmarlo.
Interlab – Un ulteriore domanda. Da questa intervista esce fuori l’immagine di un militante sindacale capace di realizzare una certa aggregazione, anche un rapporto di forza, nel contesto della fabbrica nella quale riesce a far leva sugli altri operai, organizzandoli per far avanzare determinate istanze. In parallelo però emerge il sostanziale isolamento politico del militante internazionalista, del militante politico che, sì, riesce a dire determinate cose, però – vuoi per il bassissimo livello della coscienza di classe, vuoi per tutta una serie di altri aspetti alla fine non riesce a costruire attorno a se organizzazione politica. Certo, la situazione non è detto che non possa evolvere. Nel tuo sindacato o nella rete di relazioni che hai potrebbe maturare dell’interesse verso posizioni radicalmente anticapitaliste e quindi contrarie al riformismo che caratterizza il sindacato nel quale militi. Potresti aggregare nuovi compagni che si avvicinano alla visione internazionalista, che riconoscono che il problema è il capitalismo. Hai mai pensato a come potresti muoverti in questa evenienza?
Un altro aspetto è legato ad una delle critiche che facciamo, e che fai anche tu, al sindacalismo. Il fatto che frazionano la classe in scioperi concorrenti, che non sono mai d’accordo fra loro, quindi la classe già è molto debole di suo e in più si ritrova frazionata in molti sindacati in concorrenza tra loro, che badano solo al loro interesse di sigla e di bottega, disinteressandosi completamente degli interessi di classe. Però anche all’interno di questi altri sindacati potrebbero uscire anticapitalisti. Da un lato come si potrebbero organizzare questi elementi più interessanti? E noi avanguardie, noi militanti internazionalisti, in che maniera possiamo contribuire?
Paolo – Si questa è una cosa che io non ho detto, ma l’avete detta voi, il problema degli scioperi per sigla. È una cosa molto importante. Nell’ USB a me questa cosa fa incazzare ed è costantemente oggetto di critica feroce, da parte mia, verso questo modo di fare. Il mio obiettivo è unire i lavoratori, poi se all’USB questa cosa non sta bene ed ad un certo punto mi dicono: “Senti , vattene fuori” io la considero una vittoria politica perché vorrebbe dire che non vado bene. E se non vado bene è perché io sono un operaio internazionalista e loro no.
Il fatto è che l’USB pensa di essere “il sindacato di una volta”, che mira a sostituire la CGIL ormai venduta. L’ultimo sciopero, contro la guerra, lo hanno fatto insieme all’SGB, però tante volte gli piace fare lo sciopero solo suo: USB e basta.
Io invece per il contratto nazionale, come delegato rivoluzionario, faccio tutti gli scioperi. Anche quelli della Fiom e della Fim-Cisl.
In ogni caso questi sono punti importanti di critica, che i compagni internazionalisti devono fare propri e portare avanti. Come la critica allo slogan “Abbassare le armi, alzare i salari”, al quale dobbiamo rispondere “Ma che vuol dire? Viviamo nel capitalismo.”
Insomma, il nostro problema è che dobbiamo unire la classe e loro fanno lo sciopero per i fatti loro! Ma che vuol dire?
Fatemi dire ancora due parole contratto nazionale dei metalmeccanici. L’USB ha fatto 56 ore di sciopero, la Fiom ne ha fatte 40, ok? E le abbiamo fatte tutte in giornate differenti! Non è normale. Io sono riuscito, il 28 marzo, per esempio, a uscire fuori un comunicato firmato USB che diceva: “Adesso facciamo sciopero tutti insieme, insieme alla Fiom” e lo facciamo anche noi USB. Gliel’ho detto all’USB che avrei fatto questo comunicato e loro mi hanno risposto: “Va bene, se lo volete fare fatelo.” Certo che lo facciamo! E lo firmiamo anche come USB, e siamo andati nel corteo della Fiom e della FIM-Cisl dicendo anche a questi “Guarda che noi veniamo con le bandiere dell’USB dentro al vostro corteo, perché vogliamo combattere nella pratica questa roba qua di fare gli scioperi di bandiera, perché noi siamo per l’unità di tutti gli operai”.
Gli scioperi di bandiera e la divisione della classe in tante iniziative separate dovrebbero finire. Tutto questo lo faccio soprattutto per far capire agli operai che è una grande cazzata fare gli scioperi di bandiera, è solo un ulteriore divisione.
Anche tra gli operai più coscienti c’è chi sciopera oggi perché sciopera il suo sindacato e chi sciopera domani perché sciopera il suo sindacato. È una cosa assurda.
Interlab – C’era anche la seconda parte della domanda, riguardo le possibili forme di organizzazione delle avanguardie di classe e di come possiamo contribuire noi militanti al di fuori della fabbrica.
Paolo – Bisogna contribuire sviluppando la critica, un vostro volantino internazionalista che critica cose come la questione dell’“ Abbassare le armi” e come gli “scioperi di bandiera” sono cose importanti. Mettere le organizzazioni sindacali con le spalle al muro: in teoria dovrebbero unire la classe, ma in pratica che fanno? La dividono! Questa è una critica che i compagni internazionalisti devono tirare fuori in ogni occasione.
Interlab – Stiamo arrivando alle conclusioni. In parte hai risposto, ma se ti chiedessimo un bilancio: per un operaio comunista che agisce nel sindacato, per la tua esperienza è lo spazio che il sindacato ti dà o è più quello che il sindacato ti toglie, da un punto di vista politico. Va bene la lotta per il salario, ma sappiamo bene che i comunisti vogliono superare il lavoro salariato e quindi lo stesso concetto di salario. Non lottiamo per un salario giusto, ma lottiamo per la fine del mondo del lavoro salariato. Per cui la domanda è quanto stando nel sindacato riesci a fare politicamente e quanto invece alla fine il sindacato ti va a far fare un lavoro prettamente economico, riformista.
Paolo – Anche in riferimento a quello che ho detto all’inizio dell’intervista, io penso che un compagno internazionalista deve comunque usare i mezzi a sua disposizione. Se trovassimo un mezzo differente, un mezzo alternativo possibile, possibile nella pratica però, che ci dia uno spazio di intervento tale da poter essere migliore rispetto ai mezzi che oggi abbiamo, allora io sarei il primo a dire “Ok, facciamo diversamente”. Ma oggi come oggi, con l’incoscienza di classe che c’è, i mezzi che abbiamo a disposizione sono questi, altrimenti vuol dire auto-isolarsi. Comunque certo, io posso essere isolato comunque, come dicevamo. Però tutto il campo che mi posso prendere in mano io me lo prendo. Usare questo campo non significa che devi cambiare idea o che devi essere più moderato o più riformista. Devi essere realista e cioè capire che comunque, tutti i giorni, c’è da lottare su cose piccole, su cose minime, non solo economiche, ma anche di sicurezza sul lavoro. Tutti i giorni c’è da fare, c’è da dire, c’è da discutere, c’è da lottare, tutti i giorni usando anche i mezzi che la borghesia ti dà a disposizione. Il fatto che io sono un RLS è un mezzo che la borghesia m’ha dato a disposizione. Perché non devo usarlo? Perché non devo essere un delegato sindacale? Un rappresentante sindacale dei lavoratori, che quando i lavoratori hanno dei problemi possono confrontarsi con un collega operaio e comunista, che è delegato da loro. È ovvio che poi lì sorge tutto il problema della delega, perché gli operai sono abituati a delegare e non a partecipare direttamente. Questo è un altro problema che va considerato.
È vero, però, che anche io oggi facendo il delegato dico: scusate, non mi chiamate per quel problemino lì. Quei problemini lì sulla sicurezza ve li dovete difendere da soli. Se poi, dopo, avete qualche problema più grosso, allora chiamate il delegato. Ma i vostri problemi ve li dovete difendere da soli, dovete essere coscienti, autodeterminati e difendervi da soli. Non dovete delegare a me tutta la vostra difesa. Io questa cosa la riaffermo tutti i giorni, tutte le volte che vado in reparto e dico “Ah, perché questo non funziona? Scusa, e perché tu non parli? Perché non rompi i coglioni? Devo rompere i coglioni io? Devi rompere i coglioni tu perché sei un operaio. Devi rompere i coglioni non delegare. Non devi delegare”.
Poi è ovvio che se il delegato sindacale lo deve fare un crumiro, venduto, ruffiano e lecchino, allora a sto punto lo faccio io che almeno rompo i coglioni. Però ho provato anche in modi differenti, trovandomi in una situazione diversa.
Alcuni anni fa, da semplice operaio, vedevo in fabbrica succedere delle cose tipo contestazioni di infortuni, lettere di richiamo ingiuste, solo che io non potevo intervenire. Non potevo intervenire rispetto alla repressione verso gli operai, non potevo intervenire e nonostante in quella fabbrica ci fosse un comunista, che ero io, non potevo intervenire. Adesso però è diverso, perché posso intervenire. Sai quante lettere di richiamo si sono fermate? Quante non contestazioni di infortunio, nel senso che se e ti fai male è colpa tua e quindi non ti pago l’infortunio, si sono bloccate? Io sono riuscito ad ottenere delle cose coinvolgendo anche gli operai. Sono mezzi che bisogna usare. Secondo me ogni compagno sul proprio posto di lavoro e sul proprio territorio deve usare tutti i mezzi possibili, certo, rimanendo coerenti alle proprie posizioni.
Per farvi un altro esempio pratico, quando militavo in battaglia comunista, i compagni mi dicevano allora: non devi entrare nella Fiom, sennò entri in contraddizione con quello che diciamo. Alla fine io sono entrato comunque e sono riuscito a sindacalizzare una fabbrica intera.
Ritengo che “sindacalizzare” non sia una brutta parola, nel senso che essere un operaio sindacalizzato vuol dire essere un operaio che sa difendersi, almeno un minimo, sulle cose di tutti i giorni della vita lavorativa. Presto la Fiom si è resa conto chi aveva scelto come candidato per essere delegato e alla fine non hanno voluto più candidarmi nelle liste per la RSU . Questa la considero una vittoria politica. Nel rimanere intransigenti anche usando i mezzi borghesi, facendosi anche sbattere fuori, contrastando anche questi stessi mezzi però usarli, perché in verità io lì uso. Uso tutto lo spazio, tutto quello che tu mi dai, però io sarò sempre un comunista e il mio intervento sarà sempre quello di un comunista, contro il capitalismo e contro lo sfruttamento.
Interlab – Grazie Paolo. Concludiamo qui questo breve scambio su tutta una serie di punti che l’intervista tocca. Ci interessava farli emergere per come vivono realmente con tutti i loro limiti e parzialità, sicuramente espressione di quella fase di ripiegamento dell’iniziativa operaia e della sua coscienza in quanto classe rispetto ai suoi interessi generali. Condizione che trova il suo riflesso soggettivo nelle varie scelte, altrettanto parziali, delle diverse avanguardie operaie. Come comunisti internazionalisti riteniamo che si faccia ancora più stringente la necessità che nel conflitto operaio pur su un terreno economico di resistenza e di difesa, di lavorare nell’iniziativa d’avanguardia per ricomporre i suoi aspetti immediati con l’aspetto politico di costruzione di una posizione autonoma di classe funzionale all’alternativa al capitalismo. Altrimenti la classe operaia pur combattiva rimarrà sempre inchiodata al suo ruolo di forza lavoro, privata della possibilità di uno sbocco di potere ai suoi interessi generali, unico in grado di risolverli in senso progressivo. E questo compito tocca ai comunisti internazionalisti.
FINE
